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giovedì 13 maggio 2021

WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS

 

WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS

What would you put in the hat of Joseph Beuys.

Testo di Marcello Francolini, critico d’arte,  aprile 2016


Visit:

http://www.collezionebongianiartmuseum.it/virtualGallery/?art=5

 


SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY 2.0

Via S. Calenda, 105/D - Salerno

WHAT WOULD  YOU PUT IN THE HAT

OF JOSEPH  BEUYS

Collettiva Internazionale con la partecipazione

di 119 artisti  contemporanei di cinque continenti

a cura di Giovanni  Bonanno

Presentazione  critica di Marcello Francolini 

Progetto in collaborazione con l’Archivio Ophen Virtual Art

e la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di  Salerno.

Dal 29 aprile 2016  al  27 agosto 2016

Inaugurazione: venerdì  29 aprile 2016, ore 18.00

Salerno Tel/Fax 089 5648159    e-mail:  bongiani@alice.it      

Web Gallery: http://www.collezionebongianiartmuseum.it

Orario continuato tutti i giorni dalle 00.00 alle 24.00


S’inaugura  venerdì 29 aprile 2016, alle ore 18.00, la mostra  collettiva internazionale a cura di Giovanni Bonanno dal titolo: “WHAT WOULD  YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH  BEUYS” che lo Spazio  Ophen Virtual Art Gallery di Salerno dedica all’artista tedesco Joseph Beuys in concomitanza con la ricorrenza dei 30 anni dalla scomparsa, (Dusseldorf, 23 gennaio 1986), proponendo una importante mostra collettiva  con  119 artisti di diversa nazionalità. Nella sua attività (oggetti, azioni, installazioni, interviste, multipli, ecc.)  lo ha visto protagonista indiscusso, sulla scena internazionale. Negli ultimi anni tra il Settanta e gli anni Ottanta, l'esigenza di dialogo, diventa prioritario, connota spesso le performances come occasioni per esporre verbalmente la propria concezione politico-religiosa, fondata sulla coincidenza tra autodeterminazione, libertà individuale e creatività. Un’arte intesa come processo catartico e liberatorio svincolato dai tradizionali media che  fa affidamento sul  nesso tra arte-vita-politica alla ricerca di  una nuova possibilità creativa e organizzativa dell'uomo tra spiritualismo mistico e scientismo sperimentale.  

Scrive Marcello Francolini nella presentazione: “perché un cappello per ricordare Joseph Beuys? Non poteva che esserci immagine più fedele di quella di un cappello per essere sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di Joseph Beuys. Considerandolo come il cappello, e non tanto un cappello, allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che indossava sempre e ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero luogo del suo corpo.  “Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerare il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo”. Fu così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro natura medicinale, lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del 1944.

Così scriveva l’artista nel suo Curriculum vitae/Curriculum delle opere, con il quale, in una sorta di mito delle origini, ricostruì una sua seconda vita, a partire dall’istante in cui tutto aveva avuto inizio. Portò da allora sempre con sé, feltro e grasso. Ora quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge il capo come protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i pensieri, rilascia quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo daccapo. È così che il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque, qualcosa come un peso sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra propria. La sua Heimat”.

 

Artisti presenti:  Joseph  Beuys, Ryosuke Cohen, Dorian Ribas Marhino, Marcello Diotallevi, Nicolò D'Alessandro, Maya Lopez Muro,  John M. Bennett, Santini del Prete, Virginia Milici, Gino Gini, Mauro Molinari, Nicolas de La Casiniere, Antonio Sassu,  Domenico Ferrara Foria, Meral Agar, BuZ Blurr, Horst Tress, Tomaso Binga, Miguel Jimenez, Maria José Silva-Mizé, Leonor Arnao, Melahat Yagci, Sinasi Gunes, Turikan Elci, Atelier Stiliachus, Daniel de Cullà, Giancarlo Pucci, Angela Behrendt, Wolfgang Faller, Alexander Limarev, Rosanna Veronesi, Robert Lewis, Bruno Cassaglia, RCBz, Paolo Scirpa, Carmela  Corsitto, Oronzo Liuzzi, Rossana Bucci, Ernesto Terlizzi, Linda Paoli, Remy  Penard, Rolando Zucchini, Andre Pace, Giovanni Bonanno, Pascal Lenoir, Stathis  Chrissicopulos, Claudio Grandinetti, Alfonso  Caccavale, Fernanda Fedi, Daniel Daligand, Rosa Gravino, Pedro Bericat, Francesco Aprile, Lamberto Caravita, Simon Warren,  Fabiana Pereira, Ruggero Maggi, Otto D Sherman, Renata e Giovanni Stradada, C. Mehrl  Bennett, Picasso  Gaglione, Anna Boschi, Lorenzo Lome Menguzzato, Maria Credidio, Eugenio Giannì, Emilio Morandi, Maria Teresa Cazzaro, Gianfranco  Brambati, Monika  Mori, Fernando Andolcetti, Caranovic Predrag, Pier Roberto Bassi, Patrizio Rossi, Connie Jeans, David Drum, Giovanni Fontana, Vittore Baroni, Luc  Fierens, Elena Marini, Mabi Col, Matthew Rose, Fulgor C. Silvi, John Held J.R., Dimitry Babenko, Lia Franza, Gian Paolo Roffi, Umberto Basso, Mirta Caccaro, Marina Salmaso, Lars Schumacher, Ludo Winkelman, Francesco  Mandrino, Oznur Kepce, Roland Halbritter, Serse Luigetti, Keichi Nakamura, Adriano Bonari, Alessio Guano, Carlo Iacomucci, Cinzia Farina, Domenico Severino, Maurizio Follin, Claudio Romeo, Lancillotto Bellini, Silvana Alliri, Angela Caporaso, Michel Della Vedova, Susanne Schumacher, Clemente Padin, Malte Sonnenfeld, Kateina  Nikeltsou, Claudia Garcia, Roberto Scala, Josè Luis Alcalde Soberanes, Julien Blaine, Judy Skolnick, Tricia Schriefer, Cernjul Viviana, Gianni Romizi, Ayse Sidika Ugur.

 

WHAT WOULD  YOU PUT IN THE HAT

OF JOSEPH  BEUYS

SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY

Via S. Calenda, 105/D  - Salerno

29 aprile 2016 – 27 agosto 2016

Inaugurazione: venerdì 29 aprile 2016, ore 18.00

Orario: tutti i giorni ore 00.00 - 24.00

e-mail: bongiani@alice.it     

Web Gallery 2.0:  http://www.collezionebongianiartmuseum.it

Press: bongianimuseum@gmail.com

 

 

La Presentazione di Marcello Francolini, 2016

L’operazione che andiamo qui a presentare è stata ideata e curata da Giovanni Bonanno, che attraverso lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery presenta il suo progetto Internazionale di Mail Art che, a sua volta, andrà ad alimentare la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di Salerno. Questa realtà, da anni, si muove nell’immaterialità della rete facendo dell’immanenza uno spazio concreto di riflessione.

Perché un cappello per ricordare Joseph Beuys?

Non poteva che esserci immagine più fedele di quella di un cappello per essere sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di Joseph Beuys. Considerandolo come il cappello, e non tanto un cappello, allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che indossava sempre e ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero luogo del suo corpo.

“Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerare il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo”.

Fu così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro natura medicinale, lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del 1944.

Così scriveva l’artista nel suo Curriculum vitae/Curriculum delle opere, con il quale, in una sorta di mito delle origini, ricostruì una sua seconda vita, a partire dall’istante in cui tutto aveva avuto inizio. Portò da allora sempre con sé, feltro e grasso.

Ora quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge il capo come protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i pensieri, rilascia quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo daccapo. È così che il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque, qualcosa come un peso sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra propria. La sua Heimat.

Quel cappello è ciò che di più proprio c’è di Joseph Beuys.

Per comprendere quindi la sua opera e poterne dare un giudizio è assolutamente necessario non limitarla in chiave formale, ma considerarla profondamente nella sua totalità. Egli ricercava attraverso la realtà una via di accesso alla verità attraverso se stesso e la natura. Allora appare evidente che il cappello spostando l’attenzione sull’uomo, in quanto sottende ad un corpo che deve indossarlo, rimarca proprio che il pensiero dell’artista è connesso indissolubilmente alla sua vita, alla sua carne.

Perché fare una mostra sul cappello di Joseph Beuys?

Potremmo iniziare con lo specificare che più che il cappello si tratta dell’immagine del cappello, nello specifico è un cappello capovolto il cui fondo è quello spazio di pertinenza di scambio in cui gli artisti sono chiamati a entrare.

Così posto, il cappello, sembra migrare in una forma vascolare, mostrarsi per allegoria, come una giara da cui attingere o versare pensieri che allo stesso tempo sono altrui e personali (in un rimando incessante di sovrapposizioni che alla base rappresentano l’humus del comunicare con).

Ricordando la frase di Beuys più volte rimarcata, da una sua profonda conoscitrice, Lucrezia De Domizio Durini:

“Non si conserva un ricordo si ricostruisce”

Rolando Zucchini ad esempio colma proprio quel fondo, il colore che n’esce dilaga silenzioso quasi provenisse da dentro. Quasi raggiunto l’orlo, questo verde bluastro turchese si rafferma come fosse una lastra che chiude, o comunque mantiene ben coperto qualcosa che è sotto, forse il pensiero di Beuys così legato all’essenza stessa dell’artista (il cui capo conservava gelosamente nel cappello).

Su questa modalità “del riempire” segue Anna Boschi, che fa del contenitore del pensiero beuyssiano, un reliquiario con le sue opere-concetti, scaturiti proprio da quel pozzo di acque intuitive. Gino Gini, imbarca il cappello copri capo proteggi idee in un mare di parole pensieri. Wolfgang Faller, omaggia l’artista tedesco con una moltiplicazione di “Capri-Batterie” del 1985, aumentando tanti limoni quante idee è possibile ammettere. Umberto Basso lascia, come foglie sull’acqua, a galleggiare sospese le lettere dell’alfabeto. Un’immagine direi di calma in cui i significati non hanno ancora la loro forma verbale e perciò il rapporto coll’esterno passa interamente dal corpo. Andando avanti, tra le opere di Mail Art, troviamo Giovanni e Renata Strada, insieme, marito e moglie, formano il gruppo Stradada. Al cappello in cartolina sono sovrapposte alcune fotografie in primo piano di Beuys, la composizione tende a formare un’immagine di una croce, la struttura pone un equilibrio evidente, gli occhi dell’osservatore convergono naturalmente verso il centro dove incontriamo, con espressione sorpresa, Beuys. “Chi li ha Visti?” scritta sotto l’immagine, rimarca la spesso offuscata e sbiadita idea che avvolge artisti non facilmente classificabili.

Questi artisti descritti, come la maggior parte di coloro, che sono presenti in questa mostra,  potrebbero rientrare in una tipologia del riempimento, inteso come spazio specifico entro cui formalizzare il pensiero, com’è nel caso dell’utilizzo del cappello come spazio per l’azione artistica. L’artista qui, vi si proietta. Purtuttavia ce ne sono stati alcuni che hanno ribaltato tale modalità di lavoro, optando per una tipologia del prelievo. Questi artisti prendono il cappello e lo portano dentro, in uno spazio altrove. È il caso ad esempio di Linda Paoli, che il cappello lo materializza, trasportandolo, con la mano, nei pressi dei luoghi più consoni a quella creatività antropologica di Beuys: Terra, Aria, Acqua. A seguire c’è Antonio Sassu, che risponde con un’azione pratica a un’artista delle azioni com’era Beuys, con le sue “Living Sculpture”. Si pianta, letteralmente nel terreno, la testa è scomparsa sotto, il corpo è verticale con i piedi all’insù, da cui spunta una pianta. Come un’idea che può, solo nascere da un corpo ben radicato sulla terra.

Proprio a tal proposito, della terra, e di Joseph Beuys, potrei, provando a rimestare quei graffi lasciati dagli artisti, contribuire anche io al riempire il cappello:

Piccolo Resoconto su un pensiero di terra

Semplicemente terra.

Non v’è immagine, nel senso comune, che assicura, letteralmente che mette a riparo, il nostro pensare, più d’ogni altra cosa, a una posizione stabile, salda, sicura.

Certo se per terra intendiamo ciò, di contraltare un pensiero di acqua scivolerebbe slegato in superficie, ondeggiando liquidamente da un estremo all’altro.  Un pensiero d’acqua è dato dalla successione di visioni. Esse s’accavallano repentine senza che mai di una,  sia possibile fissare un ricordo. Ogni tentativo di mantenersi stabile è vanificato dalle correnti esterne che l’influenzano e lo soggiogano. Un pensiero di terra, invece, pesa se stesso grazie ad una gravità che lo rafferma. A differenza di un pensiero d’acqua che solo vede, scorrendo, un pensiero di terra guarda, è in guardia alla posizione su cui si mantiene e nella terra si rassicura affinché il pensiero abbia piedi per slanciarsi.

Heimat è, dunque, quel nostro orizzonte che ci assicura a noi stessi. La sua luce ha la stessa consistenza della nostra prima luce mai ancora vista.

 

Joseph Beuys / Biografia


Artista tedesco, nato a Krefeld il 12 maggio 1921, morto a Düsseldorf il 23 gennaio 1986. Conseguita la maturità classica, a Kleve nel 1940 si orienta verso studi di medicina. Pilota in guerra, rimane ferito nella caduta di un aereo in Russia ed è poi fatto prigioniero. Tornato a Kleve, nell'attenzione rivolta alle scienze naturali emergono i suoi interessi per l'arte. Dal 1947 al 1951 frequenta la Staatliche Kunstakademie di Düsseldorf seguendo corsi di J. Enseling ed E. Mataré. Nel 1967 fonda l'Organisation für direkte Demokratie durch Volksabstimmung e dopo essere stato rimosso nel 1972 per ragioni politiche dall'insegnamento di scultura, svolto dal 1961 presso l'Accademia di Düsseldorf, costituisce una Freie internationale Hochschule für Kreativität und interdisziplinäre Forschung. Tra la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta evidenzia, in una figurazione di essenzialità espressionista, lo specifico dei materiali e delle tecniche. Passa quindi all'assemblaggio di oggetti di rifiuto e di sostanze deperibili e povere, pervenendo nel 1962, all'interno del gruppo Fluxus ma con posizione autonoma, alle sue prime ''azioni'' sostenute da una struttura spazio-temporale e con una forte componente magico-rituale e simbolica anche negli elementi esibiti (grasso, feltro, animali e il suo stesso corpo). Negli anni Settanta l'esigenza di dialogo, quasi una vocazione, connota spesso le performances come occasioni per esporre verbalmente la propria concezione politico-religiosa, fondata sulla coincidenza tra autodeterminazione, libertà individuale e creatività. Un’arte intesa come processo catartico e liberatorio svincolato dai tradizionali media che  fa affidamento sul  nesso tra arte-vita-politica alla ricerca di  una nuova possibilità creativa e organizzativa dell'uomo tra spiritualismo mistico e scientismo sperimentale.

Alla domanda: perché lei porta sempre il cappello? Beuys rispondeva: “Questo è il tentativo di condurre nell’intero mondo del lavoro l’uomo stesso come concetto di arte. Ciò significa che in questo momento io stesso sono l’opera d’arte”. L’artista tedesco aveva un concetto di estetica  del tutto personale, affermava: “il concetto di estetica nel vecchio senso non è più rilevante. Per me si sviluppa sempre più…  sino ad arrivare al punto in cui estetica è uguale a uomo. L’uomo stesso è estetica.” Il suo modo di presentarsi era il suo modo estetico di essere, era volontà di manifestare in modo visibile il fondamento del suo pensiero essenziale, cioè l’uomo. Di  conseguenza l’abbigliamento era  quasi una uniforme, e il cappello, in particolare, era per ricordare a se stesso e agli altri di avere una testa: la testa è fatta per pensare, per portare luce, la luce del pensiero che  sta in equilibrio sull’asse verticale, sul portamento eretto dell’essere umano. La testa è avere un’idea per cappello. Sandro  Bongiani

 Visit: 

http://www.collezionebongianiartmuseum.it/virtualGallery/?art=5



venerdì 23 dicembre 2016

Complesso di Santa Sofia a Salerno " Linea di Contorno - creatività differenti”


FINO AL 26.XII.2016 

Linea di Contorno - creatività differenti 

Complesso di Santa Sofia, Salerno

  
Ultimi giorni per visitare  presso il Complesso di Santa Sofia a Salerno " Linea di Contorno - creatività differenti” progetto espositivo a cura di Fabio Avella e Marcello Francolini.

Linea di Contorno è un progetto che vuole indagare il complesso immaginario delle diversità, di ciò che si pone come differente rispetto ai modelli della società del consumo.  La rassegna, infatti,  vuole  far conoscere le ricerche spontanee di alcuni  “isolati  dell’arte”,  appartati e fuori da


La Recensione su Exibart 
Sandro  Bongiani

mostra visitata il 13  Dicembre 2016











FINO AL 26.XII.2016 
Linea di Contorno - creatività differenti 
Complesso di Santa Sofia, Salerno

 

Ultimi giorni per visitare  presso il Complesso di Santa Sofia a Salerno " Linea di Contorno - creatività differenti” progetto espositivo a cura di Fabio Avella e Marcello Francolini.

Linea di Contorno è un progetto che vuole indagare il complesso immaginario delle diversità, di ciò che si pone come differente rispetto ai modelli della società del consumo.  La rassegna, infatti,  vuole  far conoscere le ricerche spontanee di alcuni  “isolati  dell’arte”,  appartati e fuori da ogni “trend” di attualità. Esiste sempre un dualismo fra un’arte cosiddetta “normale” e un’arte “progressiva”, cioè tra un”arte che opera con i canoni e nei canali stabiliti dalle regole della comunicazione con una conseguente creatività “ripetuta” e un’arte che tenta di rompere con le forme di comunicazione codificate. Il suo destino è quello di  condividere il disagio, l’invisibile, la libertà  e porsi in condizione di essere continuamente emarginata ed estraniata dai circuiti economici della comunicazione visiva. La mostra è suddivisa in 2 Sezioni. La prima sezione presenta una parte della “Collezione Internazionale Fabio e Leo Cei di Outsider-Art”, un’ importante raccolta di artisti marginali, alternativa ai dettami del sistema ufficiale dell’arte. I cosiddetti gli outsider dell’arte, collezionati a partire degli anni 70 con disegni, dipinti e sculture che  documentano l’altra faccia dell’arte contemporanea. La collezione  presente in questa rassegna comprende un insieme di opere provenienti dall’art / brut center di Gugging in Austria con personaggi come   August Walla, Oswald Tschirtner, Johann Fischer. L’atelier di Gugging nasce nell’ospedale psichiatrico  di Maria Gugging vicino a Vienna e poi successivamente l’altro atelier  viennese Bild Balance prima di  approdare verso il Danubio, nei Balcani con artisti più vicini all’arte naif ma comunque  segnati da una particolare inquietudine esistenziale.  Di recente vi è la presenza di un artista contemporaneo come Jean-Pierre Nadau votato  ad una sorta di horror vacui e alle grandi dimensioni come l’opera di cm 144 x 480 presente  nella navata centrale di Santa Sofia, dal titolo “La Seine eau pale masquée”.  A questo importante nucleo di opere  viene affiancato la seconda sezione  “Per un’Antologia dell’Arte Incondizionata” con  diversi artisti outsider del contemporaneo  Dario Agrimi, Dorothy Bahwl, Alessio Bolognesi, Adonai Sebhatu, Zino  improntato in modo differente verso la marginalità, la diversità e l’individualità dell’atto creativo. Giovani autori contemporanei che con la sperimentazione in atto si distaccano dalle logiche opportuniste dell’industria culturale. Dovrebbe divenire prossimamente uno spazio privilegiato d’osservazione sulle tendenze dell’arte contemporanea. Linea di Contorno si pone, quindi,  come strumento privilegiato di “conoscenza dell’altro” tramite nuove forme di visione e adattamento al mondo non per forza rispondenti ai dettami del sistema ufficiale. Scrive Marcello Francolini “la verità è qualcosa che si  nasconde oltre la concretezza delle cose, si palesa nell’inabituale”. Per cui, l’urgenza di guardarsi ossessivamente dentro per cogliere l’altro. L’opera che nasce dalla diversità e dalla individualità diventa  “noli me tangere”, croce e vessillo del sudario che ogni giorno si fa  inquietudine, sofferenza e nel contempo resurrezione e speranza. Non c’è mai progresso in arte, vi è soltanto la visione personale individualistica dell’uomo che scaturisce dalla  relazione con le zone oscure e inconsce della mente, definita, poi,  “in forma” d’impronta, segno e gesto del proprio corpo che si fa e si disfa, tutto intero, per divenire  sofferta identità  e insolita  rappresentazione di se.




Dal 2 al 26 dicembre 2016
Linea di Contorno - creatività differenti
Complesso di Santa Sofia, Salerno
Orari: Dal martedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 13:00                                        
e dalle 16:30 alle 20:00    Sabato e domenica dalle ore 10:00 alle ore 21:00






















venerdì 10 giugno 2016

Napoli, Personale di BLEDAR HASKO - MOVIMENTO APERTO.




BLEDAR  HASKO





Inaugurata  Giovedì 9 giugno 2016 dalle ore 17, presso MOVIMENTO APERTO via Duomo 290/c Napoli la mostra  fotografica di BLEDAR HASKO.

Introdotta dal testo di UGO PISCOPO, intitolato: "Si, ma non a casa mia o nel recinto di casa mia - Il buio alla luce del sole" .  Marcello Francolini tracce le note biografiche   del giovane giornalista albanese. 

La mostra rimarrà aperta fino al 30 giugno il lunedì e il martedì dalle ore 17.00 alle ore 19.00, il mercoledì dalle ore 10.30 alle ore 12.30 e su appuntamento. 
info: 3332220274







Sì, ma non a casa mia o nel recinto di casa mia
Il buio alla luce del sole
di Ugo Piscopo


Nella luce piena di un giorno estivo, non turbato da tempeste o da altri avversi fenomeni atmosferici, tutto l’esistente materializzato non può non essere esposto al sole. E su questo saremmo pronti a giurare, che è così, che non può essere diversamente. Invece, è diversamente nel mondo attuale e sotto i nostri occhi in Occidente, dove in piena esposizione alla luce del sole resistono, anzi minacciano di dilatarsi e di crescere a montagne, irriducibili, intransitive, consistenze di tenebra. E’ la tenebra che sfida la meridianità, che anzi, alla maniera dell’antimateria che divora la materia, incombe sulla storia, sulla civiltà, sui valori pronta a fagocitarli. E sarà, nel caso che la minaccia abbia successo, la fine, cioè il ritorno ai primordi. Il cerchio rischia di chiudersi. Sarà un ritorno a quando si avviò il processo dell’autoconsapevolezza umana, fondata sulla presa d’atto che si era “pura e semplice carne” esposta, tra l’altro, agli assalti dei predatori, in particolare dei leoni, come sostiene David Quammen in “Alla ricerca del predatore alfa” (ed. Adelphi). Anche oggi, nel nostro soffertamente amato Occidente sembra che si venga allargando a slavina l’autoconsapevolezza che si è nient’altro che “pura e semplice carne” esposta ai predatori affamati. E, nel nostro immaginario eccitato dalla paura, ci fingiamo che i predatori affamati siano i migranti. Che dovremmo accogliere, dice Habermas, non tanto in nome dei valori, quanto in nome dei loro diritti. Invece, li guardiamo soltanto come masse in fuga che ispirano terrore. E, per sovrappiù, scarichiamo tutta la responsabilità di questo stato di cose sui governi. I quali, purtroppo, hanno gravi responsabilità nell’affrontare i problemi con lentezza, tortuosità, contraddizioni, come si registra all’interno dell’area dell’U. E., dove si è perfino disponibili a finanziare Stati terzi, perché si facciano loro carico di alleggerire e magari risolvere le difficoltà. Perché risulta naturale che siano gli “altri” a vedersela con gli “altri”. Ma la delega sia ai governi, sia agli “altri” è soluzione che non funziona. Che, anzi, mette a nudo la disumanità, baratrale, travolgente, che fermenta e cresce dietro la facciata della nostra umanità. All’aspetto e alle proclamazioni dei diritti e dei valori, ci inventariamo tutti sul registro di esseri umani, di cittadini che si riconoscono come portatori di diritti e di doveri in fatto di uguaglianza, di libertà, di fraternità. Ma tutto questo va bene, finché ci torna comodo nelle recite e nelle pratiche, che avvantaggiano noi altri, come privilegiati. Nel momento, però, in cui siamo chiamati alla prova della condivisione con gli altri delle loro sventure (fame, violenza, persecuzioni, guerra, povertà), ci precipitiamo a impiantare reticolati, a sbarrare le frontiere, ad alzare muri, a mobilitare truppe di difesa del suolo nazionale.

Esemplari sono le terribili scene di Idomeni, nella Penisola Balcanica, in territorio macedone, dove il flusso di migranti, dalla Siria, dall’Afghanistan e da altre terre devastate e in via di ulteriore devastazione, è stato bloccato. Ogni giorno i giornali, le tv, la radio, ne parlano. Qua, adesso, ci giungono questi scatti in diretta di Bledar Hasko, che è andato a documentarsi sul luogo. Egli ha, con finezza di intuito, distribuito l’insieme degli scatti lungo l’arco di un giorno, che naturalmente va dal mattino alla sera. Sotto tale aspetto, ci aspetteremmo di vedere in sequenza, dopo le pallide luci mattinali, l’accendersi della luce piena nel corso della giornata, fino al suo stemperarsi col tramonto. Invece, l’intera vicenda della  giornata si assorbe in un triste pallore crepuscolare, sempre identico a sé stesso e al proprio squallore. Il giorno non c’è. come non c’è l’aurora, come non c’è la sera. C’è soltanto un giorno che non è giorno, c’è solo un ambiente straniato, irriconoscibile, fuori della storia e del bene e del male. E’ il limbo degli esseri umani, a cui si nega il diritto fondamentale di vivere e muoversi in un mondo umano. “Questi”, potremmo dire parafrasando Dante, “non hanno [neppure] speranza di morte”.


Bledar Hasko/ Biografia:  nasce a Gjirokaster il 16 settembre 1982. Nato tra le case di pietra che si estendono concentriche attorno ad un colle, dove in cima un castello si estende per millecinquecento metri, Bledar non poteva che sviluppare una geografica consapevolezza nel guardare il mondo. In una città riposta a valle di un abbraccio di montagne la vista impone uno sforzo immaginativo ulteriore, come avendo davanti la siepe leopardiana. A 17 anni pubblica una raccolta di poesie. Questo evadere oltre fino al mare dell’Adriatico lo porta in Italia a diciannove anni. Arriva a Salerno, dove per un anno frequenta la Facoltà di Economia, ma l’amore per la letteratura si ravviva e decide di iscriversi alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Inizia il legame con la famiglia Francolini, Mauro, Antonella e Marcello. Con quest’ultimo fin da subito nasce un’intesa naturale come il ciclo dell’acqua dal mare al cielo e viceversa. Nasce l’esperienza del gruppo teatrale La Famiglia, la casa Francolini diviene non solo casa, ma covo di stimoli capaci di dare sfogo a quella già posseduta voglia di oltrepassare “la siepe”. Alla naturale propensione per la scrittura, con il teatro affiora l’amore al racconto della realtà. Inizia così la sua carriera giornalistica che lo porta a maturare esperienze parallele nell’ambito della carta stampata, della televisione, del foto-giornalismo e del web. Bledar Hasko è per tutto un uomo della strada, vorace di raccogliere i fatti del mondo, ma da una posizione ravvicinata, per non perdere nulla delle sensazioni che ne esalano: odori, rumori, vocii e sguardi. Il suo autore preferito, che è anche protagonista del suo lavoro di tesi, è Curzio Malaparte, da cui in ultimo eredita l’amaro sguardo verso l’estremità dell’essere. Tutto ciò si incontra nello spazio della Fotografia che è diventato il mezzo più chirurgico per entrare nella carne dei fatti. La fotografia è occasione di incontro diretto, di scambio, di pensieri che intercorrono tra gli scatti. È infine l’occasione prediletta per conoscersi con il corpo, quello stesso corpo che è poi il CorpoComune, pensiero artistico che ancora nasce dal covo Francolini.     Marcello Francolini


domenica 1 maggio 2016

Salerno / “WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS”



OPHEN VIRTUAL ART GALLERY 2.0
Via S. Calenda, 105/D - Salerno




WHAT WOULD  YOU PUT IN THE HAT
OF JOSEPH  BEUYS

Collettiva Internazionale con la partecipazione
di 119 artisti  contemporanei di cinque continenti

a cura di Giovanni  Bonanno
Presentazione  critica di Marcello Francolini

Progetto in collaborazione con l’Archivio Ophen Virtual Art
e la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di  Salerno.



Dal 29 aprile 2016  al  27 agosto 2016

Inaugurazione: venerdì  29 aprile 2016, ore 18.00
Salerno Tel/Fax 089 5648159    e-mail:  bongiani@alice.it      
Orario continuato tutti i giorni dalle 00.00 alle 24.00
                              

S’inaugura  venerdì  29 aprile 2016, alle ore 18.00, la mostra  collettiva internazionale a cura di Giovanni Bonanno dal titolo: “WHAT WOULD  YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH  BEUYS” che lo Spazio  Ophen Virtual Art Gallery di Salerno dedica all’artista tedesco Joseph Beuys in concomitanza con la ricorrenza dei 30 anni dalla scomparsa, (Dusseldorf, 23 gennaio 1986), proponendo una importante mostra collettiva  con  119 artisti di diversa nazionalità. Nella sua attività (oggetti, azioni, installazioni, interviste, multipli, ecc.)  lo ha visto protagonista indiscusso, sulla scena internazionale. Negli ultimi anni tra il Settanta e gli anni Ottanta, l'esigenza di dialogo, diventa prioritario, connota spesso le  performances come occasioni per esporre verbalmente la propria concezione politico-religiosa, fondata sulla coincidenza tra autodeterminazione, libertà individuale e creatività. Un’arte intesa come processo catartico e liberatorio svincolato dai tradizionali media che  fa affidamento sul  nesso tra arte-vita-politica alla ricerca di  una nuova possibilità creativa e organizzativa dell'uomo tra spiritualismo mistico e scientismo sperimentale.  

Alla domanda: perché lei porta sempre il cappello? Beuys rispondeva: “Questo è il tentativo di condurre nell’intero mondo del lavoro l’uomo stesso come concetto di arte. Ciò significa che in questo momento io stesso sono l’opera d’arte”. L’artista tedesco aveva un concetto di estetica  del tutto personale, affermava: “il concetto di estetica nel vecchio senso non è più rilevante. Per me si sviluppa sempre più…  sino ad arrivare al punto in cui estetica è uguale a uomo. L’uomo stesso è estetica.” Il suo modo di presentarsi era il suo modo estetico di essere, era volontà di manifestare in modo visibile il fondamento del suo pensiero essenziale, cioè l’uomo. Di  conseguenza l’abbigliamento era  quasi una uniforme, e il cappello, in particolare, era per ricordare a se stesso e agli altri di avere una testa: la testa è fatta per pensare, per portare luce, la luce del pensiero che  sta in equilibrio sull’asse verticale, sul portamento eretto dell’essere umano. La testa è avere un’idea per cappello.

Artisti presenti:  Joseph  Beuys, Ryosuke  Cohen, Dorian Ribas Marhino, Marcello Diotallevi, Nicolò D'Alessandro, Maya Lopez Muro,  John M. Bennett, Santini del Prete, Virginia Milici, Gino Gini, Mauro Molinari, Nicolas de La Casiniere, Antonio Sassu,  Domenico Ferrara Foria, Meral Agar, BuZ Blurr, Horst Tress, Tomaso Binga, Miguel Jimenez, Maria José Silva-Mizé, Leonor Arnao, Melahat Yagci, Sinasi Gunes, Turikan Elci, Atelier Stiliachus, Daniel de Cullà, Giancarlo Pucci, Angela Behrendt, Wolfgang Faller, Alexander Limarev, Rosanna Veronesi, Robert Lewis, Bruno Cassaglia, RCBz, Paolo Scirpa, Carmela  Corsitto, Oronzo Liuzzi, Rossana Bucci, Ernesto Terlizzi, Linda Paoli, Remy  Penard, Rolando Zucchini, Andre Pace, Giovanni Bonanno, Pascal Lenoir, Stathis  Chrissicopulos, Claudio Grandinetti, Alfonso  Caccavale, Fernanda Fedi, Daniel Daligand, Rosa Gravino, Pedro Bericat, Francesco Aprile, Lamberto Caravita, Simon Warren,  Fabiana Pereira, Ruggero Maggi, Otto D Sherman, Renata e Giovanni Stradada, C. Mehrl  Bennett, Picasso  Gaglione, Anna Boschi, Lorenzo Lome Menguzzato, Maria Credidio, Eugenio Giannì, Emilio Morandi, Maria Teresa Cazzaro, Gianfranco  Brambati, Monika  Mori, Fernando Andolcetti, Caranovic Predrag, Pier Roberto Bassi, Patrizio Rossi, Connie Jeans, David Drum, Giovanni Fontana, Vittore Baroni, Luc  Fierens, Elena Marini, Mabi Col, Matthew Rose, Fulgor C. Silvi, John Held J.R., Dimitry Babenko, Lia Franza, Gian Paolo Roffi, Umberto Basso, Mirta Caccaro, Marina Salmaso, Lars Schumacher, Ludo Winkelman, Francesco  Mandrino, Oznur Kepce, Roland Halbritter, Serse Luigetti, Keichi Nakamura, Adriano Bonari, Alessio Guano, Carlo Iacomucci, Cinzia Farina, Domenico Severino, Maurizio Follin, Claudio Romeo, Lancillotto Bellini, Silvana Alliri, Angela Caporaso, Michel Della Vedova, Susanne Schumacher, Clemente Padin, Malte Sonnenfeld, Kateina  Nikeltsou , Claudia Garcia, Roberto Scala, Josè Luis Alcalde Soberanes, Julien Blaine, Judy Skolnick, Tricia Schriefer, Cernjul Viviana, Gianni Romizi, Ayse Sidika Ugur.



  WHAT WOULD  YOU PUT IN THE HAT
OF JOSEPH  BEUYS

SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY 2.0
Via S. Calenda, 105/D  - Salerno
29 aprile 2016 – 27 agosto 2016
Inaugurazione: venerdì  29 aprile 2016, ore 18.00
Orario: tutti i giorni ore 00.00 - 24.00

e-mail: bongiani@alice.it     
Web Gallery 2.0:  http://www.collezionebongianiartmuseum.it
Press: bongiani@libero.it








“WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS”




ARTISTI PRESENTI NELLE TRE SALE




Sala 1
Joseph  Beuys,  Alfonso Caccavale,  Dorian Ribas Marhino, Marcello Diotallevi, Nicolò D'Alessandro, Maya Lopez Muro,  John M. Bennett, Santini del Prete, Gino Gini, Mauro Molinari, Nicolas de La Casiniere, Antonio Sassu, Gruppo Sinestico,  Domenico Ferrara Foria, Meral Agar, BuZ Blurr, Horst Tress, Tomaso Binga, Miguel Jimenez, Maria José Silva-Mizé, Leonor Arnao, Melahat Yagci, Sinasi Gunes, Turikan Elci, Atelier Stiliachus, Daniel de Cullà.
Sala 2
Giancarlo Pucci, Ryosuke  Cohen,  Angela Behrendt, Wolfgang Faller, Alexander Limarev, Rosanna Veronesi, Robert Lewis, Bruno Cassaglia, RCBz, Paolo Scirpa, Carmela  Corsitto, Oronzo Liuzzi, Rossana Bucci, Ernesto Terlizzi, Linda Paoli, Remy  Penard, Rolando Zucchini, Andre Pace, Giovanni Bonanno, Pascal Lenoir, Stathis  Chrissicopulos, Claudio Grandinetti, Alfonso  Caccavale, Fernanda Fedi, Daniel Daligand, Rosa Gravino, Pedro Bericat, Francesco Aprile, Lamberto Caravita, Simon Warren,  Fabiana Pereira, Ruggero Maggi, Otto D Sherman, Renata e Giovanni Stradada, C. Mehrl  Bennett, Picasso  Gaglione, Anna Boschi, Lorenzo Lome Menguzzato, Maria Credidio, Eugenio Giannì, Emilio Morandi, Maria Teresa Cazzaro, Gianfranco  Brambati, Monika  Mori, Fernando Andolcetti, Caranovic Predrag, Pier Roberto Bassi, Patrizio Rossi.
Sala 3
Connie Jeans, David Drum, Michel Della Vedova, Susanne Schumacher, Giovanni Fontana, Vittore Baroni, Luc  Fierens, Elena Marini, Virginia Milici, Josè Luis Alcalde Soberanes, Mabi Col, Matthew Rose, Fulgor C. Silvi, John Held J.R., Dimitry Babenko, Lia Franza, Gian Paolo Roffi, Umberto Basso, Mirta Caccaro, Marina Salmaso, Lars Schumacher, Ludo Winkelman, Francesco  Mandrino, Oznur Kepce, Roland Halbritter, Serse Luigetti, Keichi Nakamura, Adriano Bonari, Alessio Guano, Carlo Iacomucci, Cinzia Farina, Domenico Severino, Maurizio Follin, Claudio Romeo, Lancillotto Bellini, Silvana Alliri, Angela Caporaso, Clemente Padin, Malte Sonnenfeld, Kateina  Nikeltsou, Claudia Garcia, Roberto Scala, Josè Luis Alcalde Soberanes, Julien Blaine, Judy Skolnick, Tricia Schriefer, Cernjul Viviana, Gianni Romizi, Ayse Sidika Ugur.




 “WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS”


WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS / Marcello Francolini


Presentazione

What would you put in the hat of Joseph Beuys.
Testo di Marcello Francolini, critico d’arte,  aprile 2016




L’operazione che andiamo qui a presentare è stata ideata e curata da Giovanni Bonanno, che attraverso lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery presenta il suo progetto Internazionale di Mail Art che, a sua volta, andrà ad alimentare la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di Salerno. Questa realtà, da anni, si muove nell’immaterialità della rete facendo dell’immanenza uno spazio concreto di riflessione.

Perché un cappello per ricordare Joseph Beuys?
Non poteva che esserci immagine più fedele di quella di un cappello per essere sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di Joseph Beuys. Considerandolo come il cappello, e non tanto un cappello, allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che indossava sempre e ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero luogo del suo corpo.

“Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerare il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo”.

Fu così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro natura medicinale, lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del 1944.
Così scriveva l’artista nel suo Curriculum vitae/Curriculum delle opere, con il quale, in una sorta di mito delle origini, ricostruì una sua seconda vita, a partire dall’istante in cui tutto aveva avuto inizio. Portò da allora sempre con sé, feltro e grasso.
Ora quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge il capo come protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i pensieri, rilascia quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo daccapo. È così che il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque, qualcosa come un peso sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra propria. La sua Heimat.
Quel cappello è ciò che di più proprio c’è di Joseph Beuys.
Per comprendere quindi la sua opera e poterne dare un giudizio è assolutamente necessario non limitarla in chiave formale, ma considerarla profondamente nella sua totalità. Egli ricercava attraverso la realtà una via di accesso alla verità attraverso se stesso e la natura. Allora appare evidente che il cappello spostando l’attenzione sull’uomo, in quanto sottende ad un corpo che deve indossarlo, rimarca proprio che il pensiero dell’artista è connesso indissolubilmente alla sua vita, alla sua carne.

Perché fare una mostra sul cappello di Joseph Beuys?
Potremmo iniziare con lo specificare che più che il cappello si tratta dell’immagine del cappello, nello specifico è un cappello capovolto il cui fondo è quello spazio di pertinenza di scambio in cui gli artisti sono chiamati a entrare.
Così posto, il cappello, sembra migrare in una forma vascolare, mostrarsi per allegoria, come una giara da cui attingere o versare pensieri che allo stesso tempo sono altrui e personali (in un rimando incessante di sovrapposizioni che alla base rappresentano l’humus del comunicare con).
Ricordando la frase di Beuys più volte rimarcata, da una sua profonda conoscitrice, Lucrezia De Domizio Durini:

“Non si conserva un ricordo si ricostruisce”
Rolando Zucchini ad esempio colma proprio quel fondo, il colore che n’esce dilaga silenzioso quasi provenisse da dentro. Quasi raggiunto l’orlo, questo verde bluastro turchese si rafferma come fosse una lastra che chiude, o comunque mantiene ben coperto qualcosa che è sotto, forse il pensiero di Beuys così legato all’essenza stessa dell’artista (il cui capo conservava gelosamente nel cappello).
Su questa modalità “del riempire” segue Anna Boschi, che fa del contenitore del pensiero beuyssiano, un reliquiario con le sue opere-concetti, scaturiti proprio da quel pozzo di acque intuitive. Gino Gini, imbarca il cappello copri capo proteggi idee in un mare di parole pensieri. Wolfgang Faller, omaggia l’artista tedesco con una moltiplicazione di “Capri-Batterie” del 1985, aumentando tanti limoni quante idee è possibile ammettere. Umberto Basso lascia, come foglie sull’acqua, a galleggiare sospese le lettere dell’alfabeto. Un’immagine direi di calma in cui i significati non hanno ancora la loro forma verbale e perciò il rapporto coll’esterno passa interamente dal corpo. Andando avanti, tra le opere di Mail Art, troviamo Giovanni e Renata Strada, insieme, marito e moglie, formano il gruppo Stradada. Al cappello in cartolina sono sovrapposte alcune fotografie in primo piano di Beuys, la composizione tende a formare un’immagine di una croce, la struttura pone un equilibrio evidente, gli occhi dell’osservatore convergono naturalmente verso il centro dove incontriamo, con espressione sorpresa, Beuys. “Chi li ha Visti?” scritta sotto l’immagine, rimarca la spesso offuscata e sbiadita idea che avvolge artisti non facilmente classificabili.
Questi artisti descritti, come la maggior parte di coloro, che sono presenti in questa mostra,  potrebbero rientrare in una tipologia del riempimento, inteso come spazio specifico entro cui formalizzare il pensiero, com’è nel caso dell’utilizzo del cappello come spazio per l’azione artistica. L’artista qui, vi si proietta. Purtuttavia ce ne sono stati alcuni che hanno ribaltato tale modalità di lavoro, optando per una tipologia del prelievo. Questi artisti prendono il cappello e lo portano dentro, in uno spazio altrove. È il caso ad esempio di Linda Paoli, che il cappello lo materializza, trasportandolo, con la mano, nei pressi dei luoghi più consoni a quella creatività antropologica di Beuys: Terra, Aria, Acqua. A seguire c’è Antonio Sassu, che risponde con un’azione pratica a un’artista delle azioni com’era Beuys, con le sue “Living Sculpture”. Si pianta, letteralmente nel terreno, la testa è scomparsa sotto, il corpo è verticale con i piedi all’insù, da cui spunta una pianta. Come un’idea che può, solo nascere da un corpo ben radicato sulla terra.

Proprio a tal proposito, della terra, e di Joseph Beuys, potrei, provando a rimestare quei graffi lasciati dagli artisti, contribuire anche io al riempire il cappello:

Piccolo Resoconto su un pensiero di terra
Semplicemente terra.
Non v’è immagine, nel senso comune, che assicura, letteralmente che mette a riparo, il nostro pensare, più d’ogni altra cosa, a una posizione stabile, salda, sicura.
Certo se per terra intendiamo ciò, di contraltare un pensiero di acqua scivolerebbe slegato in superficie, ondeggiando liquidamente da un estremo all’altro.  Un pensiero d’acqua è dato dalla successione di visioni. Esse s’accavallano repentine senza che mai di una,  sia possibile fissare un ricordo. Ogni tentativo di mantenersi stabile è vanificato dalle correnti esterne che l’influenzano e lo soggiogano. Un pensiero di terra, invece, pesa se stesso grazie ad una gravità che lo rafferma. A differenza di un pensiero d’acqua che solo vede, scorrendo, un pensiero di terra guarda, è in guardia alla posizione su cui si mantiene e nella terra si rassicura affinché il pensiero abbia piedi per slanciarsi.

Heimat è, dunque, quel nostro orizzonte che ci assicura a noi stessi. La sua luce ha la stessa consistenza della nostra prima luce mai ancora vista.