“Outsider Art Brut” 2025
Progetto collettivo Add to & Return
Memorial
a 80 anni esatti da quando Jean Dubuffet coniò il termine “Art Brut” per
descrivere le opere degli autori “outsider” e a 40 dalla scomparsa dell’artista
francese (1985), viene ricordato in Italia con un progetto internazionale
“Outsider Art Brut” a cura di Sandro Bongiani con la presentazione di 51 opere
di altrettanti artisti internazionali invitati che hanno voluto essere presenti
a questo importante appuntamento collettivo.
Art Brut è il
termine coniato nel 1945 dall'artista francese Jean
Dubuffet, per
indicare gli artisti autodidatti che
indagano con le loro esperienze al di fuori dei limiti restrittivi della
società, condividendo appieno i valori degli emarginati della società e
con il desiderio altresì di legittimare in senso espressivo le opere d'arte
create anche da pazienti psichiatrici nate spesso da fragili stati mentali e
soprattutto da problemi esistenziali e sociali, frutto spontaneo di una tensione
e carica espressiva non mediata dalla logica del mercato dell’arte. In tempi non recenti Dubuffet scriveva: “La
vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il
suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla
in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee. L’Art Brut non è da considerarsi
"arte brutta", ma spontanea, non ricerca il bello, ma si concentra
sulla natura e sulla vita per contrapporsi agli orrori e oggi alle difficoltà
dell’esistenza. Una ricerca
per certi versi condivisa in parte dal mondo degli artisti dell’arte postale
per quanto riguarda, soprattutto, la marginalità e l’inattualità rispetto il
prodotto artistico proposto dal mondo del sistema ufficiale dell’arte. Brut significa altro e primitivo in opposizione a
“culturale”, ma anche puro, autentico, incontaminato. L’Art Brut nasce da una
imperiosa necessità interiore e convive duramente le più importanti tensioni della vita gettando
un ponte tra il visibile e l’invisibile in cui le inaspettate convergenze sono intessute di
libertà e di cammino solitario.
L’artista francese a partire dal 1945 inizierà a raccogliere e collezionare
opere espressamente di Art Brut, lavori spontanei, immediati,
creati da persone prive di una specifica formazione artistica che
vivono spesso ai margini della società o sono internate in ospedali
psichiatrici, che nella stagione del 1954
proverà a definire col termine di
“Art Brut”. Nel 1951 la collezione di Dubuffet, costantemente ampliata
grazie all'acquisizione di opere di autori prevalentemente europei, venne
trasferita provvisoriamente a East Hampton, nei pressi di New York, dove rimase
fino al 1962. Nel 1971 Dubuffet preoccupato di trovarle una nuova collocazione
presso un ente pubblico, considerò l’opportunità di riportarla in Svizzera,
Paese in cui era nata. La Collection de l'art brut venne inaugurata nella sua
nuova sede, il castello settecentesco di Beaulieu, nel febbraio del 1976, oltre 5000 opere realizzate da
quasi 500 artisti. Oggi, la “Collection de l'Art Brut” di Losanna possiede una
straordinaria raccolta di oltre 70.000 opere nate dal nucleo iniziale della
donazione di Dubuffet e arricchita nel corso di diversi anni.
Di
sicuro - scrive Sandro Bongiani - “la
nostra società malata di protagonismo e di solitudine, per comodo, ha sempre
fatto una netta distinzione tra un’arte ingenua e quella colta, innestando un
alto spartiacque che ha sempre delimitato le due esperienze, purtroppo, si è
capito troppo tardi che non esiste una chiara linea di demarcazione che possa
separare facilmente le due situazioni”. Uno degli artisti che capì per
primo questo grosso dilemma è stato Jean Dubuffet, che con “l’Art Brut” creò
quel movimento capace di evidenziare l’arte dei malati di mente da quella
cosiddetta ”accademica”. Il binomio “arte e follia” si era posto già nel mondo
greco con la “ispirazione”, che faceva dell’artista un esecutore prediletto
degli dei. Cesare Lombroso,
nell’Ottocento, capì anche che l’arte era sinonimo di follia e che la follia
era una esigenza prioritaria per produrre arte, infatti, nel 1882, scriveva:
“La follia soventemente sviluppa l’originalità dell’invenzione parchè si lascia
più libero il freno dell’immaginazione
dando luogo a creazioni da cui
rifuggirebbe una mente troppo calcolatrice per paura dell’illogico e
dell’assurdo...”. Lo stesso Dubuffet, spesso, confessava: ”Credo che in Occidente si abbia torto a considerare la follia come
valore negativo, credo che la follia sia un valore positivo molto prezioso”.
Una lucida presa di coscienza verso il fascino indiscreto dell’insolito, del
mistero, essendo sempre stato interessato ad indagare sul versante “non
logico e razionale” della visione e quindi a dare degna dignità e destino alla
follia e all’ossessione della creazione.
Gli artisti presenti: Alexander
Limarev, Novosibirsk - Russia, Alfonso Caccavale, Afragola - Italia, Alfonso
Lentini, Belluno - Italia, Angela Caporaso,
Caserta - Italia, Angelo Ricciardi, Torre Annunziata - Italia, Annalisa
Mitrano, Legnano - Italia, Claudio Romeo, Besana in Brianza - Italia, Coco
Gordon, Lions CO - USA, Diego Arellano,
Paranà - Argentina, Enzo Patti, Palermo - Italia, Ernesto Terlizzi, Angri - Italia, Fabio Di Ojuara, Crearà - Mirim,
Rio Grande - Brasile, Franco Panella, Monreale - Italia, Gian Paolo Roffi,
Bologna - Italia, Giorgio Moio, Giugliano in Campania - Italia, Giovanni
Bonanno, Salerno - Italia, Gretel Fehr, Milano - Italia, Irina Tall Novikova) -
Minsk Republic of Belarus, Jack Seiei, Tamagawa - Giappone, John M. Bennett,
Columbus OH - USA, Katsura Okada, New York - USA, Lorenzo Lome Menguzzato,
Trento - Italia, Luigi Auriemma Napoli - Italia, Maria Castillo, Cordoba -
Argentina, Maria Teresa Cazzaro, Padova - Italia. Maribel Martinez, La Plata -
Argentina, Mauro Molinari, Velletri - Italia, Maya Lopez Muro, San
Giovanni Valdarno - Italia, Miguel Jimenez,
Sevilla - Spagna, Nicolas de La Casiniere, Nantes - Francia, Nicolò
D'Alessandro, Palermo - Italia, Oronzo Liuzzi, Corato - Italia, Patrizia
Cacciaguerra (Tictac), Munich - Germania, Péter Abajkovics, Budapest -
Ungheria, Pietro Lista, Cava dè Tirreni - Italia, Pina Della Rossa, Napoli -
Italia, Raffaele Boemio, Afragola - Italia, Renata e Giovanni Stradada, Ravenna
- Italia, Rolando Zucchini, Scandolaro - Italia, Rosa Cuccurullo, Cava dè
Tirreni - Italia, Rosalie Gancie, Hyattsville - USA, Ruggero Maggi, Milano -
Italia, Sabela Bana, Coruna - Spagna, Serse Luigetti, Perugia - Italia, Spike
Spence, Toronto - Canada, Stefan Brand Stifter, Mainz am Rhein - Germania,
Stella Maris Velasco, Puerto San Martin - Argentina, Stephen Tomasko, Cambridge (Ohio) - USA, Uwe Hofig, Erfurt -
Germania, Virginia Milici, Quinto di Treviso - Italia, Vittore Baroni,
Viareggio - Italia.

Evento / Sandro Bongiani Arte
Contemporanea
Memorial Outsider Art
Brut Jean Dubuffet
Progetto Internazionale collettivo add to & Return con 51 artisti invitati
Galleria: Sandro
Bongiani Vrspace
https://www.sandrobongianivrspace.it/
La Biografia:
Jean
Dubuffet
1901, LE HAVRE, FRANCIA — 1985, PARIGI, FRANCIA
Jean Dubuffet nasce a Le Havre, Francia, il 31 luglio
1901. Studia in una scuola d'arte e nel 1918 si reca a Parigi per frequentare
l'Académie Julian, che lascia dopo sei mesi. In questo periodo incontra Suzanne
Valadon, Raoul Dufy, Fernand Léger e Max Jacob, e rimane affascinato dal libro
di Hans Prinzhorn sull'arte degli alienati. Nel 1923 viaggia in Italia e nel
1924 in Sudamerica. Smette di dipingere per circa dieci anni e lavora come
disegnatore industriale, occupandosi poi dell'azienda vinicola di famiglia. Si
dedica esclusivamente all'arte a partire dal 1942.
Nel 1944 tiene la prima personale alla Galerie René Drouin di Parigi. Negli
anni quaranta frequenta assiduamente Charles Ratton, Jean Paulhan, Georges
Limbour e André Breton; in questo periodo lo stile e i temi delle sue opere
risentono dell'influenza di Paul Klee. A partire dal 1945 inizia a raccogliere
e collezionare opere di Art Brut, lavori spontanei, immediati,
creati da persone prive di una specifica formazione artistica affette da
disabilità o disturbi psichici. Nel 1947 tiene la prima personale a New York,
alla Pierre Matisse Gallery.
Dal 1951 al 1952 risiede a New York. Ritorna in seguito a Parigi, dove nel
1954 tiene una personale al Cercle Volney. Lo Schloss Morsbroich a Leverkusen,
in Germania, è il primo museo che gli dedica, nel 1957, una retrospettiva, a
cui fanno seguito altre importanti mostre al Musée des Arts Décoratifs di Parigi,
al Museum of Modern Art di New York, all'Art Institute of Chicago, allo
Stedelijk Museum di Amsterdam, alla Tate Gallery di Londra e al Museo Solomon
R. Guggenheim di New York. Nel 1964 espone a Palazzo Grassi, Venezia, i dipinti
della serie L'Hourloupe, iniziata due anni prima. Nel 1967 pubblica la
raccolta di scritti Prospectus et tous écrits suivants. Nello stesso anno realizza le sue
strutture architettoniche e, poco dopo, inizia numerose commissioni per
sculture monumentali da porre all’aperto. Nel 1971 realizza i suoi primi
oggetti scenici, i practicables. Nel 1980-81 un’importante retrospettiva è allestita
all'Akademie der Kunst di Berlino, al Museum Moderner Kunst di Vienna e alla
Joseph-Haubrichkunsthalle di Colonia. Nel 1981 il Museo Solomon R. Guggenheim
di New York gli dedica una mostra in occasione del suo ottantesimo compleanno.
Dubuffet muore a Parigi il 12 maggio 1985.
La presentazione:
“L’arte inquieta tra corpo, ossessione e creatività”
Presentazione di Sandro Bongiani,
Salerno 10 marzo 2025
A 80 anni
esatti da quando Jean Dubuffet coniò il termine “Art Brut” per descrivere le
opere degli autori “outsider” e a 40 dalla scomparsa dell’artista francese
(1985), viene ricordato in Italia con un progetto internazionale “Outsider Art
Brut” a cura di Sandro Bongiani con la presentazione di 51 opere di altrettanti
artisti internazionali invitati che hanno voluto essere presenti a questo
importante appuntamento collettivo.
Art Brut è il termine coniato
nel 1945 dall'artista francese Jean Dubuffet per indicare gli artisti autodidatti che indagano con le loro
esperienze al di fuori dei limiti restrittivi della società, condividendo
appieno i valori degli emarginati della
società e con il desiderio altresì di legittimare in senso
espressivo le opere d'arte create anche da pazienti psichiatrici nate spesso da
fragili stati mentali e soprattutto da problemi esistenziali e sociali, frutto
spontaneo di una tensione e carica espressiva non mediata dalla logica del
mercato dell’arte. In tempi non recenti Dubuffet scriveva: “La
vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il
suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla
in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee. L’Art Brut non è da considerarsi "arte brutta", ma
spontanea, non ricerca il bello, ma si concentra sulla natura e sulla vita per
contrapporsi agli orrori e oggi alle difficoltà dell’esistenza. Una ricerca per certi versi
condivisa in parte dal mondo degli artisti dell’arte postale per quanto
riguarda, soprattutto, la marginalità e l’inattualità rispetto il prodotto
artistico proposto dal mondo del sistema ufficiale dell’arte. Brut significa altro e primitivo in opposizione a
“culturale”, ma anche puro, autentico, incontaminato. L’Art Brut nasce da una
imperiosa necessità interiore e convive duramente le più importanti tensioni della vita gettando
un ponte tra il visibile e l’invisibile in cui le inaspettate convergenze sono intessute di
libertà e di cammino solitario.
In
tal senso, Dubuffet polemizzando con il
sistema dell’arte ufficiale nel 1978 scriverà a Guglielmo Achille Cavellini una
lettera in cui si rimarcherà di come viene gestita male la creatività dai
“divulgatori” e dagli improvvisatori dell’arte contemporanea, scrivendo: “Caro
Guglielmo Achille Cavellini, noi tutti abbiamo all’inizio dedicato la nostra
fede (il nostro entusiasmo giovanile) a degli schemi che si sono rivelati
ingenui. Abbiamo creduto innocentemente che la capacità producesse il merito e
che dal merito venisse la gloria. Abbiamo scoperto via via nel tempo che ciò
non accade. Abbiamo imparato che, nei rapporti sociali, è la gloria che crea il
merito e la capacità. Ed ecco che ora scopriamo che questo concetto di capacità
è scomparso divenendo un’idea ingannevole che i divulgatori introducono a loro
piacimento. Ridiamo ora attraverso di lei dei nostri sbagli precedenti. Ridiamo
del merito e della gloria. Ridiamo del pubblico e della società, ridiamo
delle loro beffarde mitologie. Questo è il messaggio che sgorga dalla sua
sferzante e singolare attività. La saluto e la elogio. Vivissimi auguri”.
(Da una lettera di Jean Dubuffet a Guglielmo Achille Cavellini, del
15-10-1978 conservata nell’Archivio Guglielmo A. Cavellini di Brescia).
L’artista francese era nato
a Le Havre nel 1901 ed era morto nel 1985 a Parigi. A circa vent’anni aveva
iniziato a dipingere, ma è soprattutto nella seconda metà del secolo che aveva
trovato, grazie alla complicità dei malati di mente, gli stimoli e la
situazione adatta per dare una “sterzata vitale” a tutta la storia dell’arte.
In tanti lunghi anni di lavoro, Dubuffet ha sempre lavorato per cicli, dalla
“Preistoria” (1917-1942), dove si alternano momenti di abbandono e di ripresa
dell’ attività, fino alla produzione continua che va dal 1942 al 1984, dalla
materia e dell’informale degli anni 50 al ciclo dell’Hourloupe del 1974, tutto
proteso verso un’arte totale, per poi concludere con l’ultimo ciclo di lavoro
in cui cerca di riprendere le vecchie ricerche e definire strani grovigli di
materia che stanno sospesi tra la figurazione e l’astrazione, tra l’essenza
selvaggia e la natura. Nell'immediato dopoguerra Dubuffet scopre nella Svizzera
romanda la collezione dello psichiatra Walter Morgenthaler. La raccolta di
Morgenthaler comprendeva diverse migliaia di opere, eseguite da artisti
schizofrenici ricoverati nella clinica psichiatrica di Waldau (BE).
A partire
dal 1945, inizierà a raccogliere e collezionare opere espressamente di Art
Brut, lavori spontanei, immediati, creati da persone prive di una specifica
formazione artistica
che vivono spesso ai margini della società o sono internate in ospedali
psichiatrici, che nella stagione del 1954, appunto, proverà a definire col termine di “Art Brut”. Nel 1951 la collezione di
Dubuffet, costantemente ampliata grazie all'acquisizione di opere di autori
prevalentemente europei, venne trasferita provvisoriamente a East Hampton, nei
pressi di New York, dove rimase fino al 1962. Nel 1971 Dubuffet preoccupato di
trovarle una definitiva collocazione presso un ente pubblico, considerò
l’opportunità di riportarla in Svizzera, Paese in cui era nata. La Collection
de l'art brut venne inaugurata nella sua nuova sede, il castello settecentesco
di Beaulieu, nel febbraio del 1976, con oltre 5000 opere realizzate da quasi 500 artisti.
Oggi, la “Collection
de l'Art Brut” di Losanna possiede una straordinaria raccolta di oltre 70.000
opere nate dal nucleo iniziale della donazione Dubuffet e arricchita nel corso
di diversi anni. Di fatto, questo museo risulta un punto di riferimento inscindibile
e prioritario se si vuole comprendere concretamente il pensiero e le opere
d’impronta Art Brut. Libero da preconcetti, attento a riflettere
silenziosamente su possibili “nuove situazioni” e soprattutto, a rimettersi
continuamente in gioco, cambiando spesso i connotati al suo lavoro e
progettando situazioni sempre più imprevedibili. Insieme ad André Breton fonderà la “Compagnie de l’art
brut” supportata dalle riflessioni personali scritte nei “Cahiers de l’Art Brut.
Dubuffet
rimane nell’arte il personaggio più singolare del novecento, l’unico che ha
saputo liberarsi dalle costrizioni della cultura ufficiale, e alla bisogna,
dare fiato al flusso del pensiero
spontaneo e selvaggio.
La normalità “anormale”
Di
sicuro la nostra società malata di protagonismo e di solitudine, per comodo, ha
sempre fatto una netta distinzione tra un’arte ingenua e quella colta,
innestando un alto spartiacque che ha sempre delimitato le due esperienze,
purtroppo, si è capito troppo tardi che non esiste una chiara linea di
demarcazione che possa separare facilmente le due situazioni. Oggi, in un
contesto assai alienato e diffuso è molto più facile trovare la cosiddetta
“anormalità”; quante persone vanno a curarsi dall’analista perché soffrono di
strane fobie, di nevrosi e persino di allucinazioni. Come è possibile tracciare
una linea che demarchi concretamente la normalità dall’anormalità, la logica
dal delirio e il gioco dall’ossessione. Tutto ciò risulta difficilmente
credibile. Certamente, uno degli artisti che capì per primo questo grosso
dilemma è stato Jean Dubuffet, che con”l’Art Brut” creò quel movimento capace
di evidenziare l’arte dei malati di mente da quella cosiddetta ”accademica”. Il
binomio “arte e follia” si era posto già nel mondo greco con la “ispirazione”,
che faceva dell’artista un esecutore prediletto degli dei. Cesare Lombroso, nell’Ottocento, capì anche
che l’arte era sinonimo di follia e che la follia era una esigenza prioritaria
per produrre arte, infatti, nel 1882, scriveva: “La follia soventemente sviluppa l’originalità dell’invenzione parchè
si lascia più libero il freno dell’immaginazione dando
luogo a creazioni da cui rifuggirebbe una mente troppo calcolatrice per
paura dell’illogico e dell’assurdo...”. Lo stesso Dubuffet, spesso, confessava:
”Credo che in Occidente si abbia torto a
considerare la follia come valore negativo, credo che la follia sia un valore
positivo molto prezioso”. Una lucida presa di coscienza verso il fascino
indiscreto dell’insolito, del mistero, essendo
sempre stato interessato ad
indagare sul versante “non logico e razionale” della visione e quindi a dare
degna dignità alla follia e all’ossessione della creazione.
Apparire e non essere
Mai
come oggi l’uomo è stato relegato a una condizione di insostanziale e semplice
comparsa in cui l’apparire non corrisponde a un “esserci”, un uomo omologato
anche per suo stesso volere “a una dimensione” come lo intendeva Herbert Marcuse nella pubblicazione del 1964, in cui il sistema ha privato persino la
possibilità di sognare. Un apparire dell’uomo contemporaneo che alla ricerca ansiosa
del successo sociale rimane imbrigliato per essere soltanto l’emblema più deviante di questa falsa e inquieta società.
Di certo, nessuna
epoca storica, per quanto assolutistica e dittatoriale ha conosciuto come oggi
un simile processo di massificazione, poiché nessun tiranno era in grado di
creare un sistema di condizioni d'esistenza tali in cui l'omologazione e la solitudine
fosse l'unica possibilità di vita per essere accettati.” Pertando, nella vita
come nell’arte e in qualsiasi campo di
rapporti sociali si procede oggi
per inerzia con proposte e
messaggi decisamente “deboli” prelevati
momentaneamente dal presente, che non
hanno la forza e il carattere di resistere al tempo e alla vita, spesso annichiliti
già dall’inizio per essere facilmente assorbiti da un sistema sociale e
culturale destinato all’omologazione collettiva.
La
follia, lo specchio della nostra esistenza
La follia non è semplicemente una
patologia da confinare negli ambiti della psichiatria. È, prima di tutto, una
condizione umana che ci riguarda tutti, perché ognuno di noi si muove su un
confine sottile tra razionalità e smarrimento. La follia è lo specchio della
nostra esistenza, le fragilità che tentiamo di nascondere sotto la maschera
della normalità, una forma di linguaggio spezzato, rotto come un giocattolo di
un bambino che urla verità profonde sull’essere al mondo, perché la sola razionalità, la logica, essendo
limitante non ci permette di comprendere appieno Il disordine, l’imprevisto e
persino il dolore. Secondo
il Filosofo, psicanalista e saggista Umberto Galimberti: “la follia originaria, “comprende i bambini, i poeti, i folli e noi stessi ogni qualvolta che sogniamo. Nel sogno
collassa il principio della contraddizione e d’identità, il principio di
casualità per cui invece della causa-effetto ci troviamo a vivere
l’effetto-causa, il collasso del tempo e dello spazio, e non appena la coscienza si eclissa collassa
tutto l’ordine della ragione. Questa è
la prova inconfutabile che la follia ci
appartiene. Noi siamo follia”.
È proprio ogniqualvolta si cerca di
celare il dubbio vi è la tirannia e l’inutilità della logica e della ragione, per
tale motivo dobbiamo smettere di relegare la follia al margine e iniziare a
dialogare con essa, per ascoltare ciò che può dirci di più di quello che
sappiamo e sul nostro essere al mondo. Una verità decisamente scomoda e di
disagio che non intendiamo affatto ascoltare e che spesso nascondiamo per paura
di essere diversi. Di certo la follia è un’esperienza dell’anima, un tentativo
di comprensione che può emergere solo dentro
uno sfuggente sfondo abissale che
è soprattutto caos e anche sofferenza, per cui, per accedere agli abissi
della follia occorre per forza di cose distanziarsi dal recinto protetto dalla
ragione e abbandonare le solite certezze. Infatti, soltanto nella dimensione
folle la ragione collassa e nel profondo tormento visionario la follia prende
il sopravvento per scandagliare gli oscuri umori del nostro essere. -sottolinea Galimberti- ”solo nell'immersione nella follia e nella confusione dei codici, è
possibile un evento creativo”. La follia è più
potente di quando non sia la ragione, che di certo non
crea niente di nuovo perché è solo uno strumento
per costringerci a integrarci e non una verità” assoluta.
Il
corpo e la follia poetica della creazione
La follia è la componente essenziale di
qualsiasi uomo, non a caso, Dubuffet scriverà “Tout le monde est peintre”, “Ognuno è
pittore”, -aggiungiamo- “di se stesso”. Nella vita come nell’arte non esistono campi scindibili, come la normalità,
l’anormalità, l’alterità e la pazzia, tutti siamo folli dal momento che tutti
noi sogniamo entrando in una dimensione non logica e irrazionale; è sufficiente
che di notte ci addormentiamo e
incomincia il calvario della pazzia, la follia ci abita divenendo inquietudine
e espressione disarticolata dalla logica. In un abisso oscuro dove tutto
diventa possibile, volare, cadere e persino
intraprendere accadimenti non ancora vissuti, tutti conseguenti viaggi invisibili
tra realtà immaginata e ossessione che
si collocano provvisoriamente in uno
spazio sospeso e ignoto in cui il confine tra reale e immaginazione si dissolve
per diventare qualcos’altro di inaspettato. La vita degli uomini, al pari
dell’arte abita l’incerto confine tra
ragione e follia. La follia è il fondamento della nostra creatività e di ogni
produzione artistica e solo gli artisti sono in
grado di attingere appieno nell’abisso della follia, di certo se non entri nell’abisso non puoi
creare; da ciò nasce il mondo espressivo e poetico. L’urgenza della creazione è
una capacità degli dei, ovvero la capacità di catturare la follia per essere
creativa e poetica. Solo l’artista può decidere di entrare o uscire da un
abisso e condividere la forma inquieta, tuttavia, se non viene controllata dal
viandante distratto può divenire visione subita
e punizione psichiatrica. Un’opera d’arte non può nascere senza la follia creativa e poetica
dell’artista.
Pertanto, ogni creazione artistica è
il frutto della follia. L’opera d’arte è il prodotto della follia
dell’artista, che sacrifica l’io
razionale, scandaglia il profondo dell’animo e rinvia ad un’altra verità disponendosi a uno sguardo di un qualcosa di più significativo rispetto alla logica del già conosciuto. Poeti, artisti e creatori
outsider sono dei sacrificanti visionari perché ogni volta che creano si devono
congedare dall’’ordine razionale della
logica per condividere il mistero oscuro
delle cose in una dimensione che alberga
tra i meandri oscuri e impervi
dell’irrazionale e dell’ignoto. Da ciò si evidenzia la grande lezione e la straordinaria potenza
di un atto resistente, senza freni inibitori, che deve necessariamente implicare l’alta febbre della follia e
soprattutto dell’ossessione per essere credibile e autentica; tutto ciò può mai
essere considerata un’espressione normale?
Card Memorial
Outsider Art Brut 2025
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