Presentazione
What would you put in the hat of
Joseph Beuys.
Testo di Marcello Francolini, critico d’arte, aprile 2016
L’operazione
che andiamo qui a presentare è stata ideata e curata da Giovanni Bonanno, che
attraverso lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery presenta il suo progetto
Internazionale di Mail Art che, a sua volta, andrà ad alimentare la Collezione
Bongiani Ophen Art Museum di Salerno. Questa realtà, da anni, si muove
nell’immaterialità della rete facendo dell’immanenza uno spazio concreto di
riflessione.
Perché
un cappello per ricordare Joseph Beuys?
Non
poteva che esserci immagine più fedele di quella di un cappello per essere
sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di Joseph Beuys. Considerandolo
come il cappello, e non tanto un
cappello, allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che
indossava sempre e ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero
luogo del suo corpo.
“Ricoprirono il mio corpo di grasso per
rigenerare il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo”.
Fu
così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro natura medicinale,
lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del 1944.
Così
scriveva l’artista nel suo Curriculum
vitae/Curriculum delle opere, con il quale, in una sorta di mito delle
origini, ricostruì una sua seconda vita, a partire dall’istante in cui tutto
aveva avuto inizio. Portò da allora sempre con sé, feltro e grasso.
Ora
quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge il capo come
protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i pensieri, rilascia
quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo daccapo. È così che
il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque, qualcosa come un peso
sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra propria. La sua Heimat.
Quel
cappello è ciò che di più proprio c’è di Joseph Beuys.
Per
comprendere quindi la sua opera e poterne dare un giudizio è assolutamente
necessario non limitarla in chiave formale, ma considerarla profondamente nella
sua totalità. Egli ricercava attraverso la realtà una via di accesso alla
verità attraverso se stesso e la natura. Allora appare evidente che il cappello
spostando l’attenzione sull’uomo, in quanto sottende ad un corpo che deve
indossarlo, rimarca proprio che il pensiero dell’artista è connesso
indissolubilmente alla sua vita, alla sua carne.
Perché
fare una mostra sul cappello di Joseph Beuys?
Potremmo
iniziare con lo specificare che più che il cappello si tratta dell’immagine del
cappello, nello specifico è un cappello capovolto il cui fondo è quello spazio
di pertinenza di scambio in cui gli artisti sono chiamati a entrare.
Così
posto, il cappello, sembra migrare in una forma vascolare, mostrarsi per
allegoria, come una giara da cui attingere o versare pensieri che allo stesso
tempo sono altrui e personali (in un rimando incessante di sovrapposizioni che
alla base rappresentano l’humus del comunicare
con).
Ricordando
la frase di Beuys più volte rimarcata, da una sua profonda conoscitrice,
Lucrezia De Domizio Durini:
“Non si conserva un
ricordo si ricostruisce”
Rolando Zucchini ad esempio colma
proprio quel fondo, il colore che n’esce dilaga silenzioso quasi provenisse da
dentro. Quasi raggiunto l’orlo, questo verde bluastro turchese si rafferma come
fosse una lastra che chiude, o comunque mantiene ben coperto qualcosa che è
sotto, forse il pensiero di Beuys così legato all’essenza stessa dell’artista (il
cui capo conservava gelosamente nel cappello).
Su
questa modalità “del riempire” segue Anna
Boschi, che fa del contenitore del pensiero beuyssiano, un reliquiario con
le sue opere-concetti, scaturiti proprio da quel pozzo di acque intuitive. Gino Gini, imbarca il cappello copri
capo proteggi idee in un mare di parole pensieri. Wolfgang Faller, omaggia l’artista tedesco con una moltiplicazione
di “Capri-Batterie” del 1985, aumentando tanti limoni quante idee è possibile
ammettere. Umberto Basso lascia, come
foglie sull’acqua, a galleggiare sospese le lettere dell’alfabeto. Un’immagine
direi di calma in cui i significati non hanno ancora la loro forma verbale e
perciò il rapporto coll’esterno passa interamente dal corpo. Andando avanti,
tra le opere di Mail Art, troviamo Giovanni
e Renata Strada, insieme, marito e
moglie, formano il gruppo Stradada.
Al cappello in cartolina sono sovrapposte alcune fotografie in primo piano di
Beuys, la composizione tende a formare un’immagine di una croce, la struttura
pone un equilibrio evidente, gli occhi dell’osservatore convergono naturalmente
verso il centro dove incontriamo, con espressione sorpresa, Beuys. “Chi li ha
Visti?” scritta sotto l’immagine, rimarca la spesso offuscata e sbiadita idea
che avvolge artisti non facilmente classificabili.
Questi
artisti descritti, come la maggior parte di coloro, che sono presenti in questa
mostra, potrebbero rientrare in una tipologia del riempimento, inteso come
spazio specifico entro cui formalizzare il pensiero, com’è nel caso
dell’utilizzo del cappello come spazio per l’azione artistica. L’artista qui,
vi si proietta. Purtuttavia ce ne sono stati alcuni che hanno ribaltato tale
modalità di lavoro, optando per una tipologia
del prelievo. Questi artisti prendono il cappello e lo portano dentro, in
uno spazio altrove. È il caso ad esempio di Linda
Paoli, che il cappello lo materializza, trasportandolo, con la mano, nei
pressi dei luoghi più consoni a quella creatività antropologica di Beuys:
Terra, Aria, Acqua. A seguire c’è Antonio
Sassu, che risponde con un’azione pratica a un’artista delle azioni com’era
Beuys, con le sue “Living Sculpture”. Si pianta, letteralmente nel terreno, la
testa è scomparsa sotto, il corpo è verticale con i piedi all’insù, da cui
spunta una pianta. Come un’idea che può, solo nascere da un corpo ben radicato
sulla terra.
Proprio
a tal proposito, della terra, e di Joseph Beuys, potrei, provando a rimestare
quei graffi lasciati dagli artisti, contribuire anche io al riempire il
cappello:
Piccolo Resoconto su un pensiero di terra
Semplicemente
terra.
Non
v’è immagine, nel senso comune, che assicura, letteralmente che mette a riparo,
il nostro pensare, più d’ogni altra cosa, a una posizione stabile, salda,
sicura.
Certo
se per terra intendiamo ciò, di contraltare un pensiero di acqua scivolerebbe
slegato in superficie, ondeggiando liquidamente da un estremo all’altro. Un pensiero d’acqua è dato dalla successione
di visioni. Esse s’accavallano repentine senza che mai di una, sia possibile fissare un ricordo. Ogni tentativo
di mantenersi stabile è vanificato dalle correnti esterne che l’influenzano e
lo soggiogano. Un pensiero di terra, invece, pesa se stesso grazie ad una
gravità che lo rafferma. A differenza di un pensiero d’acqua che solo vede,
scorrendo, un pensiero di terra guarda, è in guardia alla posizione su cui si
mantiene e nella terra si rassicura affinché il pensiero abbia piedi per
slanciarsi.
Heimat è, dunque, quel nostro orizzonte
che ci assicura a noi stessi. La sua luce ha la stessa consistenza della nostra
prima luce mai ancora vista.
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