WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS
What would you put in the hat
of Joseph Beuys.
Testo di Marcello Francolini,
critico d’arte, aprile 2016
http://www.collezionebongianiartmuseum.it/virtualGallery/?art=5
Via S. Calenda, 105/D - Salerno
WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT
OF JOSEPH BEUYS
Collettiva Internazionale con la partecipazione
di 119 artisti contemporanei di cinque continenti
a cura di Giovanni Bonanno
Presentazione critica di Marcello Francolini
Progetto in collaborazione con l’Archivio Ophen Virtual Art
e la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di Salerno.
Dal 29 aprile 2016 al 27 agosto 2016
Inaugurazione: venerdì 29 aprile 2016, ore 18.00
Salerno Tel/Fax 089 5648159 e-mail: bongiani@alice.it
Web Gallery: http://www.collezionebongianiartmuseum.it
Orario continuato tutti i giorni dalle 00.00 alle 24.00
S’inaugura venerdì 29 aprile 2016, alle ore 18.00, la mostra collettiva internazionale a cura di Giovanni Bonanno dal titolo: “WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS” che lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery di Salerno dedica all’artista tedesco Joseph Beuys in concomitanza con la ricorrenza dei 30 anni dalla scomparsa, (Dusseldorf, 23 gennaio 1986), proponendo una importante mostra collettiva con 119 artisti di diversa nazionalità. Nella sua attività (oggetti, azioni, installazioni, interviste, multipli, ecc.) lo ha visto protagonista indiscusso, sulla scena internazionale. Negli ultimi anni tra il Settanta e gli anni Ottanta, l'esigenza di dialogo, diventa prioritario, connota spesso le performances come occasioni per esporre verbalmente la propria concezione politico-religiosa, fondata sulla coincidenza tra autodeterminazione, libertà individuale e creatività. Un’arte intesa come processo catartico e liberatorio svincolato dai tradizionali media che fa affidamento sul nesso tra arte-vita-politica alla ricerca di una nuova possibilità creativa e organizzativa dell'uomo tra spiritualismo mistico e scientismo sperimentale.
Scrive Marcello Francolini nella presentazione: “perché un cappello per ricordare Joseph Beuys? Non poteva che esserci immagine più fedele di quella di un cappello per essere sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di Joseph Beuys. Considerandolo come il cappello, e non tanto un cappello, allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che indossava sempre e ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero luogo del suo corpo. “Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerare il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo”. Fu così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro natura medicinale, lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del 1944.
Così scriveva l’artista nel suo Curriculum vitae/Curriculum delle opere, con il quale, in una sorta di mito delle origini, ricostruì una sua seconda vita, a partire dall’istante in cui tutto aveva avuto inizio. Portò da allora sempre con sé, feltro e grasso. Ora quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge il capo come protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i pensieri, rilascia quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo daccapo. È così che il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque, qualcosa come un peso sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra propria. La sua Heimat”.
Artisti presenti: Joseph Beuys, Ryosuke Cohen, Dorian Ribas Marhino, Marcello Diotallevi, Nicolò D'Alessandro, Maya Lopez Muro, John M. Bennett, Santini del Prete, Virginia Milici, Gino Gini, Mauro Molinari, Nicolas de La Casiniere, Antonio Sassu, Domenico Ferrara Foria, Meral Agar, BuZ Blurr, Horst Tress, Tomaso Binga, Miguel Jimenez, Maria José Silva-Mizé, Leonor Arnao, Melahat Yagci, Sinasi Gunes, Turikan Elci, Atelier Stiliachus, Daniel de Cullà, Giancarlo Pucci, Angela Behrendt, Wolfgang Faller, Alexander Limarev, Rosanna Veronesi, Robert Lewis, Bruno Cassaglia, RCBz, Paolo Scirpa, Carmela Corsitto, Oronzo Liuzzi, Rossana Bucci, Ernesto Terlizzi, Linda Paoli, Remy Penard, Rolando Zucchini, Andre Pace, Giovanni Bonanno, Pascal Lenoir, Stathis Chrissicopulos, Claudio Grandinetti, Alfonso Caccavale, Fernanda Fedi, Daniel Daligand, Rosa Gravino, Pedro Bericat, Francesco Aprile, Lamberto Caravita, Simon Warren, Fabiana Pereira, Ruggero Maggi, Otto D Sherman, Renata e Giovanni Stradada, C. Mehrl Bennett, Picasso Gaglione, Anna Boschi, Lorenzo Lome Menguzzato, Maria Credidio, Eugenio Giannì, Emilio Morandi, Maria Teresa Cazzaro, Gianfranco Brambati, Monika Mori, Fernando Andolcetti, Caranovic Predrag, Pier Roberto Bassi, Patrizio Rossi, Connie Jeans, David Drum, Giovanni Fontana, Vittore Baroni, Luc Fierens, Elena Marini, Mabi Col, Matthew Rose, Fulgor C. Silvi, John Held J.R., Dimitry Babenko, Lia Franza, Gian Paolo Roffi, Umberto Basso, Mirta Caccaro, Marina Salmaso, Lars Schumacher, Ludo Winkelman, Francesco Mandrino, Oznur Kepce, Roland Halbritter, Serse Luigetti, Keichi Nakamura, Adriano Bonari, Alessio Guano, Carlo Iacomucci, Cinzia Farina, Domenico Severino, Maurizio Follin, Claudio Romeo, Lancillotto Bellini, Silvana Alliri, Angela Caporaso, Michel Della Vedova, Susanne Schumacher, Clemente Padin, Malte Sonnenfeld, Kateina Nikeltsou, Claudia Garcia, Roberto Scala, Josè Luis Alcalde Soberanes, Julien Blaine, Judy Skolnick, Tricia Schriefer, Cernjul Viviana, Gianni Romizi, Ayse Sidika Ugur.
WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT
OF JOSEPH BEUYS
SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY
Via S. Calenda, 105/D - Salerno
29 aprile 2016 – 27 agosto 2016
Inaugurazione: venerdì 29 aprile 2016, ore 18.00
Orario: tutti i giorni ore 00.00 - 24.00
e-mail: bongiani@alice.it
Web Gallery 2.0: http://www.collezionebongianiartmuseum.it
Press: bongianimuseum@gmail.com
La
Presentazione di Marcello Francolini, 2016
L’operazione che andiamo qui a presentare è stata ideata e
curata da Giovanni Bonanno, che attraverso lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery
presenta il suo progetto Internazionale di Mail Art che, a sua volta, andrà ad
alimentare la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di Salerno. Questa realtà,
da anni, si muove nell’immaterialità della rete facendo dell’immanenza uno
spazio concreto di riflessione.
Perché un cappello per ricordare Joseph Beuys?
Non poteva che esserci immagine più fedele di quella di un
cappello per essere sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di
Joseph Beuys. Considerandolo come il cappello, e non
tanto un cappello,
allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che indossava sempre e
ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero luogo del suo
corpo.
“Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerare il calore e
l’avvolsero nel feltro per conservarlo”.
Fu così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro
natura medicinale, lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del
1944.
Così scriveva l’artista nel suo Curriculum vitae/Curriculum delle opere, con
il quale, in una sorta di mito delle origini, ricostruì una sua seconda vita, a
partire dall’istante in cui tutto aveva avuto inizio. Portò da allora sempre
con sé, feltro e grasso.
Ora quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge
il capo come protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i
pensieri, rilascia quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo
daccapo. È così che il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque,
qualcosa come un peso sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra
propria. La sua Heimat.
Quel cappello è ciò che di più proprio c’è di Joseph Beuys.
Per comprendere quindi la sua opera e poterne dare un giudizio è
assolutamente necessario non limitarla in chiave formale, ma considerarla
profondamente nella sua totalità. Egli ricercava attraverso la realtà una via
di accesso alla verità attraverso se stesso e la natura. Allora appare evidente
che il cappello spostando l’attenzione sull’uomo, in quanto sottende ad un
corpo che deve indossarlo, rimarca proprio che il pensiero dell’artista è
connesso indissolubilmente alla sua vita, alla sua carne.
Perché fare una mostra sul cappello di Joseph Beuys?
Potremmo iniziare con lo specificare che più che il cappello si
tratta dell’immagine del cappello, nello specifico è un cappello capovolto il
cui fondo è quello spazio di pertinenza di scambio in cui gli artisti sono
chiamati a entrare.
Così posto, il cappello, sembra migrare in una forma vascolare,
mostrarsi per allegoria, come una giara da cui attingere o versare pensieri che
allo stesso tempo sono altrui e personali (in un rimando incessante di
sovrapposizioni che alla base rappresentano l’humus del comunicare con).
Ricordando la frase di Beuys più volte rimarcata, da una sua
profonda conoscitrice, Lucrezia De Domizio Durini:
“Non si conserva un
ricordo si ricostruisce”
Rolando Zucchini ad esempio colma proprio quel fondo, il colore che n’esce
dilaga silenzioso quasi provenisse da dentro. Quasi raggiunto l’orlo, questo
verde bluastro turchese si rafferma come fosse una lastra che chiude, o
comunque mantiene ben coperto qualcosa che è sotto, forse il pensiero di Beuys
così legato all’essenza stessa dell’artista (il cui capo conservava gelosamente
nel cappello).
Su questa modalità “del riempire” segue Anna Boschi, che fa del
contenitore del pensiero beuyssiano, un reliquiario con le sue opere-concetti,
scaturiti proprio da quel pozzo di acque intuitive. Gino Gini, imbarca il
cappello copri capo proteggi idee in un mare di parole pensieri. Wolfgang Faller, omaggia
l’artista tedesco con una moltiplicazione di “Capri-Batterie” del 1985,
aumentando tanti limoni quante idee è possibile ammettere. Umberto Basso lascia,
come foglie sull’acqua, a galleggiare sospese le lettere dell’alfabeto.
Un’immagine direi di calma in cui i significati non hanno ancora la loro forma
verbale e perciò il rapporto coll’esterno passa interamente dal corpo. Andando
avanti, tra le opere di Mail Art, troviamo Giovanni e Renata Strada, insieme,
marito e moglie, formano il gruppo Stradada.
Al cappello in cartolina sono sovrapposte alcune fotografie in primo piano di
Beuys, la composizione tende a formare un’immagine di una croce, la struttura
pone un equilibrio evidente, gli occhi dell’osservatore convergono naturalmente
verso il centro dove incontriamo, con espressione sorpresa, Beuys. “Chi li ha
Visti?” scritta sotto l’immagine, rimarca la spesso offuscata e sbiadita idea che
avvolge artisti non facilmente classificabili.
Questi artisti descritti, come la maggior parte di coloro, che
sono presenti in questa mostra, potrebbero rientrare in una tipologia del riempimento,
inteso come spazio specifico entro cui formalizzare il pensiero, com’è nel caso
dell’utilizzo del cappello come spazio per l’azione artistica. L’artista qui,
vi si proietta. Purtuttavia ce ne sono stati alcuni che hanno ribaltato tale
modalità di lavoro, optando per una tipologia
del prelievo. Questi artisti prendono il cappello e lo portano
dentro, in uno spazio altrove. È il caso ad esempio di Linda Paoli, che il
cappello lo materializza, trasportandolo, con la mano, nei pressi dei luoghi
più consoni a quella creatività antropologica di Beuys: Terra, Aria, Acqua. A
seguire c’è Antonio
Sassu, che risponde con un’azione pratica a un’artista delle azioni
com’era Beuys, con le sue “Living Sculpture”. Si pianta, letteralmente nel
terreno, la testa è scomparsa sotto, il corpo è verticale con i piedi all’insù,
da cui spunta una pianta. Come un’idea che può, solo nascere da un corpo ben
radicato sulla terra.
Proprio a tal proposito, della terra, e di Joseph Beuys, potrei,
provando a rimestare quei graffi lasciati dagli artisti, contribuire anche io
al riempire il cappello:
Piccolo Resoconto su un pensiero di terra
Semplicemente terra.
Non v’è immagine, nel senso comune, che assicura, letteralmente
che mette a riparo, il nostro pensare, più d’ogni altra cosa, a una posizione
stabile, salda, sicura.
Certo se per terra intendiamo ciò, di contraltare un pensiero di
acqua scivolerebbe slegato in superficie, ondeggiando liquidamente da un
estremo all’altro. Un pensiero d’acqua è dato dalla successione di
visioni. Esse s’accavallano repentine senza che mai di una, sia possibile
fissare un ricordo. Ogni tentativo di mantenersi stabile è vanificato dalle
correnti esterne che l’influenzano e lo soggiogano. Un pensiero di terra,
invece, pesa se stesso grazie ad una gravità che lo rafferma. A differenza di
un pensiero d’acqua che solo vede, scorrendo, un pensiero di terra guarda, è in
guardia alla posizione su cui si mantiene e nella terra si rassicura affinché
il pensiero abbia piedi per slanciarsi.
Heimat è, dunque, quel nostro orizzonte che ci assicura a noi
stessi. La sua luce ha la stessa consistenza della nostra prima luce mai ancora
vista.
Joseph Beuys / Biografia
Alla domanda: perché lei porta sempre il cappello? Beuys rispondeva: “Questo è il tentativo di condurre nell’intero mondo del lavoro l’uomo stesso come concetto di arte. Ciò significa che in questo momento io stesso sono l’opera d’arte”. L’artista tedesco aveva un concetto di estetica del tutto personale, affermava: “il concetto di estetica nel vecchio senso non è più rilevante. Per me si sviluppa sempre più… sino ad arrivare al punto in cui estetica è uguale a uomo. L’uomo stesso è estetica.” Il suo modo di presentarsi era il suo modo estetico di essere, era volontà di manifestare in modo visibile il fondamento del suo pensiero essenziale, cioè l’uomo. Di conseguenza l’abbigliamento era quasi una uniforme, e il cappello, in particolare, era per ricordare a se stesso e agli altri di avere una testa: la testa è fatta per pensare, per portare luce, la luce del pensiero che sta in equilibrio sull’asse verticale, sul portamento eretto dell’essere umano. La testa è avere un’idea per cappello. Sandro Bongiani
http://www.collezionebongianiartmuseum.it/virtualGallery/?art=5
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