di Ugo Piscopo
Nella
luce piena di un giorno estivo, non turbato da tempeste o da altri avversi
fenomeni atmosferici, tutto l’esistente materializzato non può non essere
esposto al sole. E su questo saremmo pronti a giurare, che è così, che non può
essere diversamente. Invece, è diversamente nel mondo attuale e sotto i nostri
occhi in Occidente, dove in piena esposizione alla luce del sole resistono,
anzi minacciano di dilatarsi e di crescere a montagne, irriducibili,
intransitive, consistenze di tenebra. E’ la tenebra che sfida la meridianità,
che anzi, alla maniera dell’antimateria che divora la materia, incombe sulla
storia, sulla civiltà, sui valori pronta a fagocitarli. E sarà, nel caso che la
minaccia abbia successo, la fine, cioè il ritorno ai primordi. Il cerchio
rischia di chiudersi. Sarà un ritorno a quando si avviò il processo
dell’autoconsapevolezza umana, fondata sulla presa d’atto che si era “pura e
semplice carne” esposta, tra l’altro, agli assalti dei predatori, in
particolare dei leoni, come sostiene David Quammen in “Alla ricerca del
predatore alfa”
(ed. Adelphi). Anche oggi, nel nostro soffertamente amato Occidente sembra che
si venga allargando a slavina l’autoconsapevolezza che si è nient’altro che
“pura e semplice carne” esposta ai predatori affamati. E, nel nostro
immaginario eccitato dalla paura, ci fingiamo che i predatori affamati siano i
migranti. Che dovremmo accogliere, dice Habermas, non tanto in nome dei valori,
quanto in nome dei loro diritti. Invece, li guardiamo soltanto come masse in fuga
che ispirano terrore. E, per sovrappiù, scarichiamo tutta la responsabilità di
questo stato di cose sui governi. I quali, purtroppo, hanno gravi
responsabilità nell’affrontare i problemi con lentezza, tortuosità,
contraddizioni, come si registra all’interno dell’area dell’U. E., dove si è perfino
disponibili a finanziare Stati terzi, perché si facciano loro carico di
alleggerire e magari risolvere le difficoltà. Perché risulta naturale che siano
gli “altri” a vedersela con gli “altri”. Ma la delega sia ai governi, sia agli
“altri” è soluzione che non funziona. Che, anzi, mette a nudo la disumanità,
baratrale, travolgente, che fermenta e cresce dietro la facciata della nostra
umanità. All’aspetto e alle proclamazioni dei diritti e dei valori, ci inventariamo
tutti sul registro di esseri umani, di cittadini che si riconoscono come
portatori di diritti e di doveri in fatto di uguaglianza, di libertà, di
fraternità. Ma tutto questo va bene, finché ci torna comodo nelle recite e nelle
pratiche, che avvantaggiano noi altri, come privilegiati. Nel momento, però, in
cui siamo chiamati alla prova della condivisione con gli altri delle loro
sventure (fame, violenza, persecuzioni, guerra, povertà), ci precipitiamo a
impiantare reticolati, a sbarrare le frontiere, ad alzare muri, a mobilitare
truppe di difesa del suolo nazionale.
Esemplari sono le terribili scene di Idomeni, nella Penisola Balcanica, in
territorio macedone, dove il flusso di migranti, dalla Siria, dall’Afghanistan
e da altre terre devastate e in via di ulteriore devastazione, è stato
bloccato. Ogni giorno i giornali, le tv, la radio, ne parlano. Qua, adesso, ci
giungono questi scatti in diretta di Bledar Hasko, che è andato a documentarsi
sul luogo. Egli ha, con finezza di intuito, distribuito l’insieme degli scatti
lungo l’arco di un giorno, che naturalmente va dal mattino alla sera. Sotto
tale aspetto, ci aspetteremmo di vedere in sequenza, dopo le pallide luci
mattinali, l’accendersi della luce piena nel corso della giornata, fino al suo
stemperarsi col tramonto. Invece, l’intera vicenda della giornata si assorbe in un triste pallore
crepuscolare, sempre identico a sé stesso e al proprio squallore. Il giorno non
c’è. come non c’è l’aurora, come non c’è la sera. C’è soltanto un giorno che
non è giorno, c’è solo un ambiente straniato, irriconoscibile, fuori della
storia e del bene e del male. E’ il limbo degli esseri umani, a cui si nega il
diritto fondamentale di vivere e muoversi in un mondo umano. “Questi”, potremmo
dire parafrasando Dante, “non hanno [neppure] speranza di morte”.
Bledar
Hasko/ Biografia: nasce a Gjirokaster il 16 settembre
1982. Nato tra le case di pietra che si estendono concentriche attorno ad un
colle, dove in cima un castello si estende per millecinquecento metri, Bledar non
poteva che sviluppare una geografica consapevolezza nel guardare il mondo. In
una città riposta a valle di un abbraccio di montagne la vista impone uno
sforzo immaginativo ulteriore, come avendo davanti la siepe leopardiana. A 17
anni pubblica una raccolta di poesie. Questo evadere oltre fino al mare
dell’Adriatico lo porta in Italia a diciannove anni. Arriva a Salerno, dove per
un anno frequenta la Facoltà di Economia, ma l’amore per la letteratura si
ravviva e decide di iscriversi alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Inizia il
legame con la famiglia Francolini, Mauro, Antonella e Marcello. Con
quest’ultimo fin da subito nasce un’intesa naturale come il ciclo dell’acqua
dal mare al cielo e viceversa. Nasce l’esperienza del gruppo teatrale La
Famiglia, la casa Francolini diviene non solo casa, ma covo di stimoli capaci
di dare sfogo a quella già posseduta voglia di oltrepassare “la siepe”. Alla
naturale propensione per la scrittura, con il teatro affiora l’amore al
racconto della realtà. Inizia così la sua carriera giornalistica che lo porta a
maturare esperienze parallele nell’ambito della carta stampata, della
televisione, del foto-giornalismo e del web. Bledar Hasko è per tutto un uomo
della strada, vorace di raccogliere i fatti del mondo, ma da una posizione
ravvicinata, per non perdere nulla delle sensazioni che ne esalano: odori,
rumori, vocii e sguardi. Il suo autore preferito, che è anche protagonista del
suo lavoro di tesi, è Curzio Malaparte, da cui in ultimo eredita l’amaro
sguardo verso l’estremità dell’essere. Tutto ciò si incontra nello spazio della
Fotografia che è diventato il mezzo più chirurgico per entrare nella carne dei fatti.
La fotografia è occasione di incontro diretto, di scambio, di pensieri che
intercorrono tra gli scatti. È infine l’occasione prediletta per conoscersi con
il corpo, quello stesso corpo che è poi il CorpoComune, pensiero artistico che
ancora nasce dal covo Francolini. Marcello Francolini