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lunedì 1 gennaio 2018

UN ARTISTA AL MESE / Gennaio 2018



Da oggi, ogni primo del mese e per 12 mesi verranno presentati  in queste pagine 12 artisti  con alcune opere significative  integrate dal video e relativa biografia sintetica. Una raccolta  immaginaria e  ideale di arte contemporanea, una raccolta dei sogni  e anche dei  desideri. Nasce, soprattutto,   dal desiderio  di far conoscere alcuni artisti nati tra gli anni 20 e 60,  ancora non del tutto conosciuti al grande pubblico che nel corso degli anni  hanno  definito in modo  poetico e originale  una propria visione personale dell’arte.  Sandro  Bongiani



Mese di Gennaio 2018 / CARLO  RAMOUS




Carlo Ramous - Scultura architettura città

Presentato alla mostra personale di Carlo Ramous alla Triennale di Milano nel 2017, in questo video si vedono i vari passaggi della vita dello scultore. Con interventi di Fulvio Irace e Luca Pietro Nicoletti, curatori della mostra. Intervengono inoltre Antonella Ranaldi (Soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Milano), Francesco Tedeschi e Walter Patscheider.           Video, durata 23:34



https://youtu.be/UWiH-8gHTIM    durata 23: 34




















Carlo Ramous nasce a Milano nel 1926; frequenta il Liceo Artistico presso l'Accademia di Belle Arti di Bologna, per poi continuare gli studi presso l'Accademia di Brera con Marino Marini e Giacomo Manzù. All’Accademia di Brera, nel 1946 espone la sua prima opera di ispirazione antropomorfa liberamente ispirata a Boccioni, Fontana e Melotti.
Presto si impone sulla scena della scultura astratta italiana. Nelle sue opere la tensione dinamica e la presenza plastica convivono; la spazialità geometrica è parzialmente esaltata e contraddetta da un sapiente gioco di equilibri in grado di sfidare la pesantezza e la rigidità dei materiali utilizzati, quali il legno e il metallo.
Allestimenti personali vengono organizzati in tutto il mondo nei più importanti musei e gallerie. Tra tutti i luoghi si citano Milano - Galleria Il Milione (1956), Ginevra - Galleria Jolas (1971), Milano - Piazzetta Reale (1974), La Spezia - Mostra antologica presso il Centro Allende (1977), Gubbio - Antologica. Vent'anni di scultura (1987). Sue opere figurano inoltre in mostre personali e grandi rassegne internazionali: Biennale di Venezia nel 1958, 1962, 1972; Biennale di San Paolo del Brasile del 1961; Quadriennale di Roma nel 1955, 1959, 1973; Triennale di Milano nel 1954, 1960, 1964; Biennale Internazionale di Anversa nel 1965 e nel 1973; e altre importanti rassegne note a livello internazionale da Parigi a Tokio, da Roma a Londra, da Oslo a Milano, da New York da Anversa, da Alessandria d’Egitto a Teheran, da Città del Messico a Budapest, all’Aquila, a Zurigo, a Colonia , a Norimberga, da Berlino a Sidney, all’Aia, a Copenhagen, a Lisbona, a Dusseldorf a Los Angeles, a Lagos, ecc..
Tra i musei che possiedono le sue opere, vanno ricordati: Museo d'Arte Moderna Villa Giulia di Roma, Museo Cà Pesaro d'Arte Moderna di Venezia: Galleria d'Arte Moderna di Milano, Colgate Museum di New York, Middelheim Museum di Anversa, Museo Forma Viva di Portoroz, solo per citarne alcuni.
 Del suo lavoro si è occupata la critica più attenta, Trier, Dorfles, Russoli, Gassiot-Talabot, Valsecchi, Elgar, Ashbery, Ballo, Leveque, Carandente, Alvard, De Micheli, Welcher, Crispolti, Coulan, Natali, Gualdoni, Bettolini, sono solo alcuni.
Oltre alle innumerevoli esposizioni collettive e di gruppo, ha eseguito numerosi grandi lavori per l’architettura, tra questi: la chiesa di Santa Marcellina a Milano; la chiesa di Don bosco a Milano; l’Imprimerie Cino del duca a Blois (Francia); la scultura posta di fronte alla scuola di Viale Marche a Milano; e numerose sculture per le scuole in Italia e negli ospedali di Pordenone e Como.
Le sue opere diventano progressivamente più aeree, ideogrammi o segni in tre dimensioni che trovano la loro giusta collocazione in contesti urbani. “L'ambiente è importante, e solo in funzione di esso l'artista assume la propria identità.” (Alessandro G. Amoroso). Fra le sculture che hanno lasciato una traccia indelebile nella sua città natale si ricordano “Finestra nel cielo” (1968) in piazza Miani, “Gesto per la Libertà” (1972) in piazza della Conciliazione, e il “Monumento ai Caduti dell’ Isola” (1972) in piazzale Segrino, oltre alla monumentale “Ad Astra” (1992), un complesso di acciaio inossidabile alto quasi 12 metri, del peso di 7 tonnellate installato nel Chou Park a Chiba City, Giappone.
Negli anni Ottanta Ramous elabora la sua ricerca continua in numerose serie di bozzetti, realizzati in lamierino di zinco, veri studi per grandi realizzazioni.Sono piccoli elementi strutturati, dove la forma plastica si dissolve nel suo negativo spaziale e fantastico, per una nuova oscillazione dell’immagine complessiva. Muore a Milano, nel 2003.    
 http://www.carloramous.it/

mercoledì 28 giugno 2017

Josè Molina - Reggia di Caserta









Fino al 3 giugno
José Molina. Paesaggio dopo la battaglia 
Retrostanze del '700, Reggia di Caserta

Le Retrostanze del ‘700 lungo il percorso degli Appartamenti Storici della Reggia di Caserta ospitano fino al 3 giugno la personale dell’artista madrileno José Molina dal titolo “Paesaggio dopo la battaglia”. L’importante mostra curata da Lorenzo Canova   è presente in una serie di ambienti  della Reggia che per diversi anni hanno ospitato la Collezione Lucio Amelio, una delle più importanti raccolte al mondo di arte contemporanea. La presenza di  Josè Molina  non fa che rinnovare la relazione originaria della Reggia con la terra di origine dell'artista, a partire dal suo committente, Carlo di Borbone. In questo contesto l'opera metamorfica e visionaria di Molina ha il potere di rendere ancora più affascinante la visita. L’esposizione offre al visitatore un corpus di 30 opere – dipinti, disegni e sculture che mette a fuoco  i temi  trattati frequentemente dall’artista spagnolo, con una serie opere  del tutto inedite realizzate proprio quest’anno, facente parte del ciclo “Paesaggio dopo la battaglia”, da cui la mostra prende il  particolare titolo.  L’artista, attraverso una abilissima tecnica grafica supportata da una insolita capacità  di  ricerca e d’indagine psicologica e antropologica è capace di far  emergere le insolite pulsioni e gli istinti  primordiali  che caratterizzano la particolare specie umana in un sottile e inquieto viaggio  solitario e atemporale vissuto tra  un passato atavico  che s’innerva nel  disagio del presente per divenire congiuntamente un tutt’uno. Un magistrale procedere e rapportarsi in un territorio dell’immaginazione e delle emozioni oscuro e imprevedibile, carico di improvvisi  e repentini scatti e slittamenti di umore  che riemergono in un incessante e lento  affiorare. Al centro dell’interesse dell’artista   madrileno vi è l’assidua attenzione  ad  indagare la vita dell’uomo, il suo malessere e  gli svariati aspetti che lo caratterizzano, rappresentandolo in atteggiamenti  spesso deformati e mostruosi allo scopo di svelarne le intime e diverse problematiche che lo caratterizzano, di un essere dall’identità perduta, che per paura  cerca egoisticamente di occultare. Lo si può percepire facilmente osservando sia le opere inedite create appositamente per  questa importante mostra, (Paesaggio dopo la battaglia), così come nei cicli storici precedenti come i Predatores, Los Olvidados, Peccati e Virtù  che dal 2005, sono  motivo assiduo d’indagine e di ricerca. L’intento essenziale di Molina è cercare  d’interessare e coinvolgere concretamente lo spettatore  affidandosi  non soltanto all’immaginazione ma anche alla definizione  dettagliata e definita dell’immagine che deve essere  motivo di attrazione convincente in questa insolita messa a fuoco della realtà, spingendolo ad interrogarsi più concretamente, così i prevaricatori, i deboli e i dimenticati dell’umanità, tra virtù e peccato si ripropongono intrecciandosi ripetutamente nel corso della intera storia dell’uomo. Una visione decisamente transitoria e trasversale che accoglie suggestioni di vario genere, da Goya a  Grosz, da Daumier a Bacon, e poi anche i contributi di diversa area culturale come il Surrealismo, la fotografia, l’Iperrealismo,  si badi bene, non semplice  sogno ludico e automatismo psichico di ascendenza surrealista, ma tipologie  oniriche di rappresentazione che convergono e si definiscono  tra loro in una sintesi più fattibile in un qualcosa di più  esistenziale che possa permettere una possibile catarsi. Un viaggio, quindi,  a ritroso e all’interno dell’immaginario, dentro e fuori dal corpo, per una messa a nudo di emozioni e stati d’animo che convivono tragicamente da sempre.  Rimane un campo di battaglia pieno di macerie,  segnato da una dura lotta cruenta e feroce che ha devastato e svuotato il destino e le coscienze, carico di presagi e anche di improvvise ricadute. Alla fine della  battaglia  rimangono a terra  i corpi  disfatti, le emozioni e i modi di sentire e agire  che ci appaiono come pesanti macigni inanimati in un procedere transitorio e ricorrente pieno di ostacoli e condizionamenti che di fatto impediscono una chiara presa di coscienza del proprio agire. In questa precaria realtà dell’animo umano l’incubo prende corpo e diventa metamorfosi,   sconfinamento allegorico attorno ai meandri di una realtà  irreparabilmente mutata. Dissolvenze, metamorfosi, deformazioni dell'anima, irrigidimenti  di zone  ridotte in un’altra dimensione ancora più confacente.  Ne permane, pertanto,  un trascendente ritratto sempre diverso  caratterizzato dai diversi aspetti della fragilità  dell’essere umano. Un’immagine ibrida dell’uomo alienato  ripreso a bocca aperta e a denti stretti in una dimensione di sofferto  e stressante disagio, oppure,  come nel ultimo monumentale “Crocefisso” di quest’anno,  vecchie larve  hanno preso il posto del disagio, riemergendo improvvisamente dal nulla a nuova vita.  Dopo la caduta, forse,  una  possibile speranza che si fa redenzione. Tutta l’opera di Molina è una incessante lotta, un continuo e sofferto procedere alla ricerca di un qualsiasi segnale che possa   permettere  all’uomo di prendere coscienza  della infausta situazione in cui si è arenato da tempo. Questa è  l’aria  d’inquietudine,  di attesa ma anche di possibile rinascita che si respira visitando  le magnifiche sale del visionario mondo di  Josè Molina.    
Sandro  Bongiani    









Sandro  Bongiani
EXIBART,  mostra visitata il 4 maggio
Dal 4 maggio al 3 giugno 2017
José Molina, Paesaggio dopo la battaglia 
Retrostanze del '700, Reggia di Caserta 






SALA 47 

venerdì 18 aprile 2014

AUGURI DI BUONA PASQUA 2014


 

AUGURI DI  UNA 
SERENA  PASQUA
 
 


Luciano  Pera, “Una mattina a Gozo“    anni ’90
acquaforte   24,50x15,50 - (Collezione  Archivio Luciano Pera)
 

giovedì 16 febbraio 2012

FAUSTO MELOTTI AL MUSEO MADRE DI NAPOLI



Fino al 9 aprile 2012

Mostra Antologica di Fausto Melotti

Museo Madre di Napoli


Le invenzioni plastiche di Fausto Melotti nascono dall’immaginario e sono apparizioni provvisorie, insostanziali, in attesa di un soffio di vento per rianimarsi, per divenire viaggio, apparizione, racconto. Sono presenze che tendono alla tensione, al flusso indefinito, nel tentativo di trasformarsi in contrappunto poetico e apparire come …..


                                                  Primi anni  60 -  Liceo Carducci di Milano

Dopo le grandi mostre dedicate a Alexander Calder, Louise Bourgeois, Alberto Giacometti e Lucio Fontana, protagonisti indiscussi della scultura e dell’arte contemporanea, l’appuntamento ora è con il grande Fausto Melotti, ossia con uno dei più importanti artisti internazionali che ha saputo coniugare la tradizione con il rinnovamento del linguaggio artistico e della scultura contemporanea. L’esposizione antologica che si tiene nelle ampie sale del fascinoso Museo Madre di Donna Regina a Napoli accoglie in maniera cronologica oltre 200 opere tra terracotte, disegni, ceramiche, gessi e sculture in ottone, in un arco di tempo che va dal 1930 al 1986, ovvero, dai primi lavori figurativi realizzati all’inizio degli anni trenta ai bassorilievi del 1934-35 che testimoniano l’adesione dell’artista al movimento astrattista, proseguendo, poi, con i famosi teatrini e le successive opere realizzate degli anni sessanta fino al 1986, anno della morte dell’artista.


E’ a partire dal 1925 che Melotti inizia la sua lunga avventura artistica con una serie di piccoli disegni, primi accenni della serie dei “teatrini”che per lungo tempo animeranno la sua feconda stagione artistica. Nei primi anni la sua ricerca è chiaramente figurativa suggestionata dapprima dal futurista Fortunato Depero, da Pietro Canonica e poi da Adolfo Wildt, suo maestro alla cattedra di scultura all’Accademia di Brera. Da questo momento Il percorso di Melotti s’intreccia sistematicamente con quello di Lucio Fontana, compagno di corso a Brera e amico sincero di tutta una vita. E’ indubbio che le prime opere figurative risentono l’influsso di Wildt, tuttavia, la sua scultura sembra guardare più all’arte arcaica che al naturalismo di Arturo Martini e del Novecento. Negli anni 1934-35, grazie allo studio della musica e dagli apporti del cugino Carlo Belli aderisce convinto al movimento dell’arte astratta partecipando nel 1935 alla prima mostra collettiva astratta presso lo studio di Felice Casorati e Enrico Paolucci a Torino, e poi alle mostre presso la Galleria Il Milione dei fratelli Ghiringhelli; l’unica galleria privata in Italia aperta alla sperimentazione e alle suggestioni internazionali, esponendo lavori caratterizzati da una modulazione già non figurativa alla ricerca della perfezione, dell’armonia musicale e della bellezza geometrica. E‘ del 1935-36 l’opera “Costante Uomo”, una serie di 12 manichini identici usciti da una situazione chiaramente metafisica in cui la figurazione arcaica degli anni precedenti viene ora stemperata e addolcita in forme più semplificate. Gli anni successivi sono momenti difficili per Melotti. Nell’incertezza e in prossimità di una seconda guerra mondiale, l’artista si rifugia “nell’intimità delle piccole cose”, nella malinconia dei gesti consueti e tradizionali; piccole opere in ceramica cotte nella piccola muffola nello studio di Via Leopardi, 26 a Milano, rifiutando ogni forma di ufficialità e occupandosi prevalentemente di ceramica e della realizzazione di insoliti e piccoli teatrini in terracotta colorata che la critica del tempo considera e taccia come “una serie secondaria a parte” all’interno della produzione complessiva di questo artista. I “teatrini” sono dei contenitore-casa al cui interno vi sono diversi piani occupati da oggetti e personaggi ottenuti utilizzando i più svariati materiali che evocano momenti privati, piccoli racconti. Insomma, una sorta di contenitori a-temporali decisamente metafisici. Le prime avvisaglie di tali lavori vengono anticipate già in alcuni disegni tra il 1925 e il 1930. Comunque, non sarà mai una produzione marginale, di poco conto, continueranno ad essere creati dall’artista integrandosi con le successive invenzioni filiformi fino a quasi la metà del 1985. La visione dell’artista di Rovereto ormai va condensandosi per immagini interiori e per accadimenti emotivi di piccola dimensione. Fausto Melotti, ha sempre preferito formulare le opere in una dimensione più raccolta, di piccolo formato, cosciente che la monumentalità della scultura non è definibile in base alla grande dimensione effettiva e monumentale del formato ma a una intensa capacità di far emergere una visione favolistica che sollecita la riflessione e la partecipazione.


Dal 1959 in poi, l’artista ritrova la possibilità di rinnovare la scultura contemporanea tessendo un percorso difficile ma straordinariamente fascinoso, affidandosi “alle piccole cose”, all’intimità di un momento in cui il silenzio e alla ricerca dell’esistere e si fa apparizione. Rinnovamento, dicevo, ottenuto utilizzando fili di ottone saldato e diversi altri materiali occasionali e persino trovati. Risultati ottenuti indubbiamente in ritardo rispetto all’amico Fontana che proprio alla vigilia della guerra decide di trasferirsi in Argentina piuttosto che condividere gli eventi della guerra come farà l’artista di Rovereto che vivrà intensamente tale momento segnandolo in modo forte. Tuttavia, saprà ritrovare un destino nuovo e interessante alla scultura contemporanea, considerata da tempo “lingua morta”. Nascono nel 60 i Sette Savi, dei manichini che assomigliano a birilli che verranno collocati al Liceo Carducci di Milano prima di essere definitivamente spostati perché deturpati dalla stupidità e dal vandalismo studentesco. In questi anni, l’artista, nonostante sia conosciuto non è molto considerato e compreso dalla critica, forse a causa dei materiali che utilizza tipicamente “artigianali” e poveri come la terracotta e la ceramica e per quel che riguarda le nuove opere degli anni sessanta, forse perché realizzate con la semplice saldatura piuttosto che la classica modellazione della forma artigianale, rifiutando apertamente di condividere la scultura per via di un modo di fare tipicamente consueto e tradizionale. Proprio nel 1960, persino Giovanni Carandente, amico e sostenitore di tanti amici scultori, incaricato ad approntare un Dizionario della Scultura Moderna per Il Saggiatore, non prende affatto in considerazione il lavoro dello scultore di Rovereto. Ci sono tutti tranne che lui. Solo nel 1978, riconoscerà il giusto valore impresso da questo importante scultore dando l’appropriata attenzione che per anni è stata negata. Da questo momento in poi, fino al 1986, la sua particolare visione creativa risorge producendo una serie infinita di straordinarie opere utilizzando i più disparati materiali, come la creta, l’ottone, gesso, inox, vetro, bronzo, tessuto dipinto, terracotta, fili metallici, carta, rete di metallo, cartone, amianto corda, fili di lana e persino filamenti di nastro per magnetofono. I teatrini ora si sono trasformati in accadimenti provvisori; non più “rappresentazioni materiali” ma “azioni immateriali” in cui il caso modifica l’evento per definirsi in precaria e momentanea essenza malinconica, incanto sfuggente e effimera apparizione. Scriverà successivamente: “ l’opera d’arte, quando è vera, ti allontana dal mondo, ti cinge di questa barriera di silenzio, e tu la vedi come attraverso un vetro, quando è vera arte, che sia musica che sia poesia, scultura, ti trovi sempre davanti a questo vetro che ti dice che sei un pover’uomo, e che non arrivi all’angelicità dell’arte”. Ormai la musica per lungo tempo amata dall’artista è diventata poesia, presagio, contrappunto e spartito scenico. Sono opere che per vivere ed esistere hanno bisogno di un soffio di aria; in fondo, la poesia non ha bisogno di opere monumentali ma di piccoli gesti inconsueti, poveri, quasi inconsistenti. Le sue sono essenzialmente azioni di tipo performativo, nascono nello spazio e nel tempo come eventi provvisori e non hanno bisogno di ulteriori contributi elettrici come nell’opera di Jean Tinguely o degli artisti dell’arte cinetica e programmata, ma del semplice aiuto delle singole forze naturali. La tecnologia, non entrerà mai nel lavoro di Melotti, preferendo gli eventi naturali capaci di evidenziare meglio la casualità e la provvisorietà. Fausto Melotti è decisamente l’artista “dell’incorporeo”, dell’incantata apparizione soggetta al continuo cambiamento per esistere, per esserci ancora. Le opere di questo artista nascono dal profondo buio, si ossigenano di luce e cercano incessantemente il dialogo e la partecipazione corale.


Ormai la scultura è diventata sensitiva, per questo motivo le sue sculture sembrano che volano tanto appaiono leggere e precarie. Non si materializzano mai. Sono apparizioni provvisorie in attesa di un soffio di vento per rianimarsi, per divenire viaggio, apparizione, racconto. Sono presenze che non tentano di “definirsi in forma”, ma vivono l’istante come momento sfuggente, insostanziale. E’ doveroso sottolineare che dopo anni di analisi critiche, per lungo tempo divaganti e fuorvianti in ambito essenzialmente geometrico e astratto, solo negli ultimi tempi, si è prospettata per il lavoro di Melotti una diversa e più confacente lettura, direi più obiettiva - come giustamente ha fatto Germano Celant - che ha puntato sull’indeterminatezza e sulla provvisorietà del racconto piuttosto che sulla bella forma e sul rigore geometrico di matrice semplicemente astratta. Con le ultime opere la visione si fa precaria, fragile, vive nella penombra dell’azione e dell’apparizione conseguente per definirsi sinteticamente per lacerti di memoria. Presenze che hanno bisogno dell’aria e dell’atmosfera per sopravvivere, includendo nell’azione forze che possono apportare nuovi sviluppi. Insomma, una situazione decisamente provvisoria, non definita, costretta a vivere l’enigma di un limite tra la penombra e la luce. Sono “i ricordi dell’anima” che prendono forma in modo larvale e si condensano in un possibile ed ermetico racconto, nell’apparenza sfuggente di un solo attimo. Più che la luce, come afferma convinto Celant, è lo spiazzante apparato scenico che ordina e mette in forma per un momento la dimensione precaria dell’apparire, un messinscena in cui la realtà si fonde provvisoriamente con la finzione per divenire presagio dell’invisibile. L’artista non fa leva sull’accostamento casuale e ironico “dell’objet trouvè” di matrice duchampiana, non cerca la provocazione e neanche fa leva sull’utilizzo degli oggetti “tout court”, ma incentra tutto il suo lavoro sulla manualità, sulla manipolazione dei materiali semplici e soprattutto sulla trasfigurazione in base ad un emergente bisogno espressivo e comunicativo. Per tale motivo i materiali non vengono mai presentati per quello che sono ma trasformati in funzione di una sintesi, per la carica di suggestione che possono trasferire. Quindi, non sono da intendere come semplici e consuete “opere astratte” ma nascono dall’immaginario e dallo sconvolgimento dei sensi. Sono presenze che tendono alla tensione al flusso indefinito nel tentativo di trasformarsi in contrappunto poetico e apparire come favola. Una visione in realtà complessa e intricata.


Ormai la rappresentazione non preferisce la modellazione dei primi momenti figurativi ma la modulazione della danza, la leggerezza che si fa gesto, movimento e anche rivelazione. Un transitare veloce, decisamente solitario, sospeso al di la del logico e del consueto. Anche l’ultima produzione, per intenderci quella degli ottoni saldati, devono essere letti come “teatrini dell’anima” che provvisoriamente si animano di oscure energie tra passione e profondo silenzio. Quelli di Fausto Melotti sono sogni e segni poetici situati a mezz’asta nell’aria, nella dimensione più oscura e vera della penombra, sono presenze senza tempo in cui la vita, per un attimo si è rappresa. Una rappresentazione decisamente inconsistente, immateriale, transitoria, sospesa tra un emergere indeterminato che cerca anche per un solo attimo di trasformarsi in vertigine e apparire.



sandro bongiani

mostra visitata  per Exibart il 21 dicembre 2011









“Un soffio di vento”

Poema visivo di Giovanni Bonanno dedicato a Fausto Melotti




La vita

di un uomo

è fatta di oscuri tintinnii di campane appese per la gola,

di cadute, di miraggi e anche di memorie solitarie che nascono da cadenze antiche.

Solo nell’oscurità il silenzio incarna essenze malinconiche senza tempo.

La luce vola oscura tra fruscii e rintocchi che sbattono cupi nell’aria come presagi dell’invisibile.

Solo nella fantasia il silenzio magicamente prende forma.

L’aspro vento di Rovereto sfiora e accarezza le frange dei cenci appesi ad una trave di ferro sibilando oscuri e mirabili incanti per poi adagiarsi fiera sopra la polvere che il tempo ha conservato.

Solo nei ricordi il silenzio diventa poesia tra una metamorfosi e un battito d’ali che il tempo si appresta a cancellare.

Nella penombra dei pensieri, insolite presenze di latta e di ruggine colano orgogliosi lungo remoti pendii per condensarsi in entità sospese.

Solo nel silenzio dell’oscurità

gli incanti si trasformano

in note

e in contrappunti musicali

nel tentativo

di esserci

ancora.

Giovanni Bonanno © 2012







16 dicembre 2011 – 9 aprile 2012


Fausto Melotti


MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina


Via Luigi Settembrini 79 (80139),  Napoli


Contatti: +39 08119313016 -

www.museomadre.it


Da lunedì a sabato: 10.30 – 19.30 / domenica: 10.30 – 23.00

(la biglietteria chiude un’ora prima)   martedì: chiuso
intero 7 euro, ridotto 3,50 / lunedì: gratuito
Ufficio stampa
ELECTA: +39 0221563250
imaggi@mondadori.it