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domenica 10 ottobre 2021

Domani / LA SCULTURA E LA CITTA' FRONTALE DI PIETRO CONSAGRA

 


 

  








Demetrio Paparoni    


DOMANI





Su Domani  la scultura di Pietro Consagra, 
inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.



ASTRATTISMO, IMPEGNO SOCIALE E IDEALISMO 
NELLA SCULTURA BIDIMENSIONALE 
DI PIETRO CONSAGRA


La recente mostra di  Pietro Consagra alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano, intitolata La materia poteva non esserci (a cura di Alberto Salvadori) mi ha offerto l’occasione di scrivere di un astrattista italiano che è riuscito a coniugare sperimentazione linguistica e impegno sociale. La storia del gruppo  Forma 1 di cui Consagra fece parte, è nota. Nel mio articolo, oltre a soffermarmi sul lavoro di quest’artista siciliano – trasferitosi da giovane a Roma e vissuto anche a Milano, oltre che negli Stati Uniti – analizzo anche il contesto sociale, politico e culturale in cui si è sviluppata la sua poetica. La cifra espressiva e formale che ha reso noto Consagra è l’invenzione di una scultura tendente il più possibile alla bidimensionalità, sottile quanto basta per reggersi in piedi e concepita in modo da non chiudere lo spazio visivo. Per ottenere questo risultato Consagra non ha considerato la scultura un blocco compatto privo di “finestre”, arrivando a definire certi suoi lavori “trasparenti”.


Ho voluto ricordare l’opposizione del Partito comunista italiano all’arte astratta, nel dopoguerra, ma anche la contrapposizione creata dal critico Clement Greenberg tra astrattisti americani e astrattisti europei con lo scopo di affermare la superiorità dell’arte americana. Come suggerisco nel mio articolo, una comparazione tra l’opera di Consagra e quella di David Smith, anch’egli impegnato a definire i canoni di una scultura frontale e bidimensionale, aiuta a comprendere più di ogni altro commento la portata rivoluzionaria delle intuizioni di Consagra.


Alla fine degli anni Sessanta Consagra elaborò la sua idea di città ideale fatta a misura d’uomo, quella che egli stesso ha chiamato “Città frontale”. Il suo desiderio di vedere realizzati alcuni di questi progetti si concretizzò nella nuova Gibellina, costruita dopo il terremoto del Belice grazie all’impegno di Ludovico Corrao che, da sindaco, immaginò una città interamente progettata da artisti. La mostra alla Collezione Olgiati  include tra l’altro diverse sculture in acciaio inossidabile, alte tra cinquanta e ottanta centimetri, con una base di un metro e uno spessore di poco più di dieci centimetri, sculture che sono in realtà modelli dei suoi progetti di architettura. Tra le foto che accompagnano questa mia anticipazione trovate sia queste sculture-progetto-architettonico sia edifici che si riferiscono proprio all’esperienza da architetto-artista di Consagra a Gibellina.



Didascalie delle foto

  • Copertina e successive due immagini: Veduta parziale della mostra di Pietro Consagra dal titolo La materia poteva non esserci alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano. Foto Agostino Osio, Courtesy Giancarlo e Denna Olgiati
  • Architettura di Pietro Consagra a Gibellina, Meeting, 1980-84, cemento vetro e ferro. Courtesy Archivio Pietro Consagra Milano
  • Architettura di Pietro Consagra a Gibellina, Teatro, 1989, cemento vetro e ferro. Foto Giacomo D'Aguanno. Courtesy Archivio Pietro Consagra Milano



e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani








Serve un po’ d’arte per completare l’opera elettorale di Joe Biden

Dalle iniziative di Warhol contro Nixon al Trump-clown dipinto da Scully, passando per il poster iconico di Obama.Gli artisti hanno un ruolo fondamentale nel grande romanzo delle elezioni americane. Storia di una mobilitazione civile

LEGGI SUL SITO



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Segnalato da Archivio Ophen Virtual Art di Salerno

domenica 12 settembre 2021

DOMANI / L'Arte in Sudafrica prima e dopo la pandemia.

 


 

  








Demetrio Paparoni    






DOMANI





Su Domani  il Sudafrica prima e dopo la pandemia,  in un testo di Edoardo Ghizzoni, inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.



l’arte in Sudafrica prima e dopo la pandemia




Questa domenica l’attenzione delle pagine dedicate all’arte di Domani è rivolta al Sudafrica. Due artisti di generazioni diverse,  Robin Rhode e  Sue Williamson, discutono con Edoardo Ghizzoni, autore dell’articolo, oltre che del loro lavoro e di alcune caratteristiche dell’arte africana, di  pandemia, di apartheid e di post-apartheid, della rivolta popolare di luglio scatenatasi dopo l’arresto del presidente Zuma, messo in prigione perché si era rifiutato di comparire davanti a un tribunale anticorruzione. Durante i disordini i centri commerciali di Città del Capo e di Johannesburg furono saccheggiati. Come potrete leggere, fatti come questi hanno inciso sul lavoro degli artisti. Con l’avvento dei social, e poi con la pandemia e con gli episodi di violenza alimentati dalle frustrazioni e dalle difficoltà economiche, in Sudafrica si realizzano sempre meno graffiti, ma soprattutto è venuto meno il coinvolgimento della gente in progetti d’arte collettivi. «Nel 2019 Rhode» ­– si legge nell’articolo – «è stato però costretto a rinunciare al suo muro a Westbury perché i tassi di violenza e di guerra tra bande nel quartiere hanno raggiunto livelli insostenibili. Ha realizzato pertanto le sue serie successive di dipinti all’aperto su un muro a Gerico, in Palestina, ben lontano dal Sudafrica. “Il modo in cui il mondo è cambiato con la pandemia” mi dice, “ha limitato la possibilità di lavorare all'aperto e di interagire con gruppi sociali. […] Devo sinceramente ammettere che avverto un senso di fallimento. Inizialmente ho pensato di tornare alla radice del mio lavoro: il muro nel cortile di mia madre a Johannesburg. E che ci si possa credere o no, è lì che sono stato contagiato dal Covid-19. Tutta la mia famiglia è stata contagiata. Perfino la sicurezza e la sacralità dello spazio domestico sono diventate un hot spot per il virus”».
Le due pagine sono ricche di informazioni e considerazioni utili a confrontarsi con la complessità della situazione artistica africana. “Se guardi i principali artisti africani contemporanei, da El Anatsui a Ibrahim Mahama, non operano come singoli, ma come collettivi. Siamo sempre orientati alla comunità: dobbiamo supportare, dobbiamo creare una crescita. È una responsabilità enorme. E poiché non vivo in Sudafrica in modo permanente, ora ho un'identità fratturata. Sono in conflitto tra il sistema artistico europeo e americano che privilegia la voce individualista e l'arte o artista africano che opera come collettivo e dipende da una maggiore interattività educativa e sociale affinché il suo lavoro venga riconosciuto dall’arte globale. Vedo che gli artisti europei non hanno questa responsabilità”.




Prendendo spunto dal lavoro di Williamson, l’articolo mette tra l’altro in evidenza che durante l'apartheid ai lavoratori neri era richiesto portare con sé un passaporto interno che precludeva il libero accesso ad alcune aree abitate da bianchi. A questo tema Williamson ha dedicato nel 1990 For Thirty Years Next to His Heart (vedi foto) composto da 18 pezzi, per mettere in evidenza questa pratica di controllo di cui sta oggi scomparendo la memoria tra i giovani sudafricani.

Questo e molto altro rendono quest’articolo imperdibile. Un’ulteriore considerazione: l’interesse sempre più diffuso in Occidente per gli artisti africani, alimentato da un mercato sempre alla ricerca di nuovi autori non ancora presenti nelle collezioni, ha tra i suoi effetti una sorta di migrazione delle menti migliori nelle capitali dell’arte europee e americane. Questo non accade con tutti gli artisti, ovviamente, ma accade. Molti hanno già un doppio studio, uno nella città d’origine, uno in Europa o negli USA. Che bravi e nuovi artisti approdino nelle gallerie occidentali, siano inclusi in grandi mostre ed esposti da musei è senza dubbio una buona cosa, ma va anche considerata l’incidenza che questo può portare nello sviluppo del loro lavoro. Non è così da escludere che una crescente globalizzazione dei linguaggi artistici possa nel tempo tendere sempre più a ridurre le sane differenze che distinguono l’arte che si produce nelle diverse parti della terra.



Didascalie delle foto
  • Copertina: Robin Rhode, Paradise, 2016, immagine tratta da una sequenza fotografica. Courtesy dell’artista.
  • Sue Williamson, What About El Max? II (We Are Like Fish - Close Up), 2005, inchiostri pigmentati su Hahnemuhle. Foto Rag. Courtesy dell’artista e della  Goodman Gallery, Città del Capo e Londra
  • Robin Rhode, New Kids on the Bike, immagine tratta da una sequenza fotografica, 2002, Stills.
  • Sue Williamson, For Thirty Years Next to His Heart, particolare, 1990, colour laser prints, cornice rivestita a mano, 196 cm x 262 cm
  • Copertine delle recenti monografie dedicate a Sue Williamson e Robin Rhode pubblicate  da Skira.


e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani


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Segnalato da Archivio Ophen Virtual Art di Salerno

domenica 29 agosto 2021

L’Afghanistan / quando la guerra entra in casa in forma di tappeto islamico afghano

 


 

  






Demetrio Paparoni    






DOMANI





Su Domani  di oggi  l'Afghanistan con i tappeti  islamici da combattimento in un testo di David Carrier, inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.




Quei tappeti da combattimento afghani

 L’Afghanistan è il tema del giorno. Non potrebbe essere diversamente, viste le terribili notizie e immagini che ci giungono da quei luoghi tornati nelle mani dei talebani. Sulla pagina dedicata all’arte del nostro quotidiano oggi il filosofo e critico David Carrier scrive della mostra From Combat to Carpet: The Art of Afghan War Rugs al Museum of International Folk Art (MOIFA), una divisione del Dipartimento degli Affari Culturali sotto la guida del Board of Regents for the Museum of New Mexico. L’esposizione itinerante, curata da Enrico Mascelloni e Annemarie Sawkins, presenta più di 40 tappeti tessuti realizzati a mano negli ultimi quarant’anni, molti dei quali con iconografie legate alla guerra. A fare questi tappeti, poi venduti in Pakistan, ma anche in Europa e in America, sono donne e bambini afghani. I motivi e i soggetti raffigurati sono ben lontani da quelli rassicuranti presenti nei tappeti tradizionali. Vi ritroviamo infatti armi, elicotteri, carri armati, vedute di città attraversate da mezzi militari, mine, ritratti di Ahmad Shah Massoud, il capo militare assassinato da Al-Qaeda nel 2001, o di Amānullāh Khān, il sovrano dell'Afghanistan dal 1919 al 1929. Non mancano tappeti che mostrano l’attacco dell’11 settembre a New York City. Ce n’è anche uno con un planisfero che mette al centro l’Afghanistan (nella foto).


“Si dice che i tradizionali tappeti islamici siano come oasi nel deserto.” Scrive tra l’altro Carrier. “Si stendono a terra e si può immaginare di sdraiarsi su un rigoglioso giardino che cresce sontuosamente, circondato da una vegetazione lussureggiante. Questa è una delle ragioni per cui da tempo i tappeti affascinano gli occidentali che non sanno nulla dell’arte del mondo musulmano. I loro tessuti decorativi trasmettono attraverso la vista e il tatto una sensazione di tranquillità. Ma se mettiamo un tappeto di guerra sul muro come se fosse un quadro, così come accade in questa mostra, o sul pavimento, dove di solito si trovano i tappeti decorativi, ci ritroviamo immediatamente in una zona di combattimento. A meno che non siamo commercianti d’armi, è improbabile che la scena risulti rilassante. A guardare invece i tappeti di guerra appesi alle pareti è come se i combattimenti in Afghanistan ci avessero seguito fino a casa per perseguitarci.”




 Per altro verso la memoria non può che andare ad Alighiero Boetti e a Francesco Clemente che in Afghanistan hanno lavorato. L’articolo non riguarda gli arazzi con planisferi politici fatti realizzare da Boetti dal 1971 al 1993 in Afghanistan e in Pakistan, ma un cenno qui mi è d’obbligo. Boetti fece inserire dalle ricamatrici afghane i motivi delle bandiere dei vari Stati all’interno dei confini dei territori nazionali.  Nelle diverse versioni di questi planisferi che seguirono è possibile rilevare di anno in anno i cambiamenti geopolitici attraverso il variare dei confini e delle bandiere. Boetti inserì nei suoi arazzi anche frasi in farsi. In Pakistan fece realizzare dei tappeti con temi astratti e figurativi.


Didascalie delle foto
  • Copertina: Tappeto afghano che raffigura una moneta da cento dollari, lana annodata. Realizzato attorno al 2001
  • Tappeto con mappa del mondo, lana annodata. Realizzato nell’Afghanistan occidentale prima del 1989
  • Tappeto afghano con ritratto di Amanullah Khan, lana annodata.  Realizzato prima del 1985
  • Tappeto afghano con mappa dell'Afghanistan, lana annodata. Realizzato a Baghlan prima del 1998
  • Tappeto afghano con paesaggio urbano con ponte sul Bosforo, lana annodata. Realizzato nell’Afghanistan occidentale nella prima metà degli anni '80
  • Tappeto afghano che raffigura la Moschea Malabar e Victoria Street a Singapore, lana annodata. Realizzato nell’Afghanistan occidentale prima del 1998




e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani


Il senso religioso di Andy Warhol


Famoso a livello mondiale come colui che ha portato nell’arte l’estetica dell’effimero e dei beni di consumo, teneva rigorosamente nascosta la sua vita privata e il legame con le sue radici cattoliche


I musei ipocriti uccidono l’arte. L’autocensura nel «caso Guston»














Dopo l’omicidio di George Floyd, la mostra sul pittore che ha rappresentato la banalità del male con i cappucci del KKK è stata rimandata, per evitare una discussione troppo complicata. I critici sono insorti per difendere la libertà dell’arte


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Segnalato da Archivio Ophen Virtual Art di Salerno

domenica 11 luglio 2021

AGLI UFFIZI GLI ALBERI IN VERSI DI GIUSEPPE PENONE MENTRE AL LOUVRE SALE LA FEBBRE DA NFT

 

 

Ritratto di Demetrio Paparoni    






DOMANI




Pagina del 11 luglio  2021 


Su Domani  L'angelo di Berlinde De Bruyekere, Giuseppe Penone agli Uffizi,  Giacon e la febbre da NFT, inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.



L’angelo di Berlinde De Bruyckere 
raccontato dalla stessa artista.


Questa domenica lo spazio dell’arte di Domani è dedicato a Berlinde De Bruyckere. Dell’artista belga era prevista quest’anno a Firenze una mostra organizzata dalla galleria degli Uffizi a Palazzo Pitti, ma a causa della pandemia la mostra è stata rimandata al 2022. L’appuntamento resta quindi nei programmi degli Uffizi e ci offrirà l’occasione di vedere in Italia una mostra museale con opere espressamente realizzate da una delle artiste drammatiche più interessanti sulla scena internazionale. A scrivere del lavoro di De Bruyckere e a intervistare l’artista è Luca Fiore, che nelle due pagine a lei dedicate delinea un ritratto reso particolarmente prezioso dal fatto che l’artista difficilmente concede interviste. Nel dialogo emerge il profondo e complesso radicamento nell’arte e nel pensiero del cattolicesimo, che ha alimentato il desiderio di De Bruyckere di offrire opere che possano dare speranza mostrando qualcosa di bello e, allo stesso tempo, complesso. Il tema della carne, della sua sofferenza e della sua redenzione, al centro della poetica dell’artista belga, è infatti tipico della sensibilità e dell’arte cattolica. Se c’è una salvezza, ci dice De Bruyckere con la sua arte, questa deve coinvolgere non solo lo spirito, ma anche il corpo dell’uomo. Interessante inoltre la posizione dell’artista nei confronti dell’opera di Francis Bacon, a cui è stata spesso accostata – non correttamente dal suo punto di vista – e di quella di Burri, che dichiara di apprezzare. De Bruyckere racconta inoltre la genesi delle sue ultime opere esposte alla mostra al Museo Bonnefanten di Maastricht, intitolata Engelenkeel, concepite durante il periodo della pandemia e dedicate al tema dell’angelo. Insomma, da leggere!

 

Giuseppe Penone agli Uffizi
 

 
Si intitola Alberi in versi, la mostra dell’artista torinese appena inauguratasi a Firenze alla Galleria degli Uffizi. Trovi notizie sulla mostra  qui.
Questa foto mostra l’installazione di Giuseppe Penone nella stanza dell’Ermafrodito, copia romana del primo secolo avanti Cristo di una scultura ellenistica che raffigura un giovinetto sdraiato su una pelle di leone stesa su una roccia. Penone ha rivestito le pareti della sala con Respirare l’ombra, un lavoro ideato nel 2000 costituito da foglie di té trattenute da una griglia metallica sulla quale sono agganciati rami con foglie di bronzo. Sempre nella stessa sala, per terra, Penone ha disposto l’installazione del 1979 Soffio di foglie, un cumulo di foglie su cui l’artista ha lasciato l’impronta del proprio corpo sdraiandovisi sopra.
 

Giacon e la febbre da NFT
 
In questa tavola autoconclusiva  Massimo Giacon ci racconta di due tipi, tal Demetrio e tal Stefano, che tentano un colpaccio al Louvre: ottenere un NFT della Gioconda fotografandola di nascosto di notte. Stavolta l’autore si è autoritratto mentre si gusta l’epilogo della storia leggendolo su Domani.



Didascalie delle foto
- Cover: Berlinde De Bruyckere, veduta della mostra alla Galleria Continua, Les Moulins, 2019. Courtesy dell’artista e della galleria Continua. Foto Oak Taylor-Smith
-Berlinde De Bruyckere, veduta parziale della mostra Engelenkeel al Bonnefanten di Maastricht, 2021. Courtesy dell’artista e della Galleria Continua. Foto Mirjam Devriend.
- Giuseppe Penone, installazione alla Galleria degli Uffizi, Firenze 2021
- Quarta di copertina: Berlinde De Bruyckere, Lichaam (Corps), 2002-2006, epossidico, ferro, pelle di cavallo, 153,5 x 102 x 288,5 cm. Courtesy Galleria Continua. Foto Ela Bialkowska
 




Alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani


Il senso religioso di Andy Warhol


Famoso a livello mondiale come colui che ha portato nell’arte l’estetica dell’effimero e dei beni di consumo, teneva rigorosamente nascosta la sua vita privata e il legame con le sue radici cattoliche


I musei ipocriti uccidono l’arte. L’autocensura nel «caso Guston»














Dopo l’omicidio di George Floyd, la mostra sul pittore che ha rappresentato la banalità del male con i cappucci del KKK è stata rimandata, per evitare una discussione troppo complicata. I critici sono insorti per difendere la libertà dell’arte


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