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domenica 17 ottobre 2021

DOMANI / Il telaio Maria Lai per tessere relazioni tra esseri umani e natura

 



Demetrio Paparoni    


DOMANI




Su Domani  Il telaio  Maria Lai per tessere relazioni tra esseri umani e natura, inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.


Il telaio di Maria Lai per tessere relazioni 
tra esseri umani e natura
 

Tra le lettere che ho ricevuto questa settimana più d’una si sofferma sul fatto che privilegio artisti che attraverso il loro lavoro hanno manifestato un impegno sociale. Il riferimento non era solo alla recente pagina dedicata a Pietro Consagra, ma alle scelte in generale della sezione arte del quotidiano. Sia chiaro, non penso che l’impegno sociale sia un aspetto necessario nel lavoro di un artista. E penso anche che, da solo, il messaggio che l’opera inevitabilmente esprime, per quanto significativo possa essere, non basti a rendere il lavoro di un artista interessante. A renderlo interessante per me è in modo in cui forma e contenuto si compenetrano.
 


E veniamo adesso alla pagina domenicale dell’arte, dedicata questa settimana a Maria Lai, il cui lavoro è estremamente poetico ma anche pregno di impegno sociale. Lai, nata nel 1919 a  Ulassai, in Sardegna, è stata un’artista che ha attinto alla cultura tradizionale e artigianale della propria terra d’origine – dalla tessitura alla panificazione – traendone un linguaggio sperimentale aderente allo spirito del tempo. Nel 1939 Lai si trasferì prima a Roma per studiare in accademia, poi ancora a Venezia, dove rimase fino al 1945 per poi ritornare nel paese d’origine. Quando nel 2013 ci ha lasciati, non era una sconosciuta, ma non era neppure un nome noto a tutti, nonostante avesse svolto un lavoro egregio e avesse partecipato a mostre importanti.
 

La pagina dedicata all’artista sarda porta la firma di Angela Maderna, che si sofferma in particolare sull’opera-evento Legarsi alla montagna, che ha avuto luogo nel 1981 a Ulassai. Prendendo spunto da una leggenda locale, l’opera-evento prevedeva che ogni famiglia legasse con un nastro celeste la propria casa a quella dei vicini, adottando delle simbologie che mettevano in evidenza il tipo di relazione che intercorreva tra loro. Il borgo venne inoltre simbolicamente legato col nastro alla montagna alle cui pendici sorge. Di quell’evento rimangono le fotografie di Piero Berengo Gardin oggi pubblicate in un volume che celebra i quarant’anni dalla realizzazione dell’opera, edito da 5 Continents Edition. Ve ne propongo qualcuna.
Vale la pena ricordare che nel 2008 Lai è stata inclusa nella mostra Italic (a cura di Francesco Bonami) a Palazzo Grassi, a Venezia; nel 2017 ha partecipato alla Documenta di Kassel/Atene (a cura di Adam Szymczyk) e alla Biennale di Venezia (curata da Christine Macel); nel 2019, in occasione del centenario della nascita, il MAXXI di Roma le ha dedicato una mostra antologica (a cura di Luigia Lonardelli e Bartolomeo Pietromarchi).


Didascalie delle foto
Tutte le immagini riprodotte sono Courtesy ©Archivio Maria Laiby Siae 2021
  • Copertina: Maria Lai, Errando, 2010, polimaterico, cm 115 x 96 x8,5. Foto Giorgio Dettori.
  • Maria Lai, Legarsi alla montagna, interventi su fotografie di Piero Berengo Gardin, 1981-1982. Coutresy 5 Continents Edition e Fondazione Maria Lai.
  • Maria Lai, Formiche rosse, libro cucito, stoffa, filo e tempere, 1992. Foto Giorgio Dettori


e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani








Serve un po’ d’arte per completare l’opera elettorale di Joe Biden

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Segnalato da Archivio Ophen Virtual Art di Salerno

domenica 10 ottobre 2021

Domani / LA SCULTURA E LA CITTA' FRONTALE DI PIETRO CONSAGRA

 


 

  








Demetrio Paparoni    


DOMANI





Su Domani  la scultura di Pietro Consagra, 
inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.



ASTRATTISMO, IMPEGNO SOCIALE E IDEALISMO 
NELLA SCULTURA BIDIMENSIONALE 
DI PIETRO CONSAGRA


La recente mostra di  Pietro Consagra alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano, intitolata La materia poteva non esserci (a cura di Alberto Salvadori) mi ha offerto l’occasione di scrivere di un astrattista italiano che è riuscito a coniugare sperimentazione linguistica e impegno sociale. La storia del gruppo  Forma 1 di cui Consagra fece parte, è nota. Nel mio articolo, oltre a soffermarmi sul lavoro di quest’artista siciliano – trasferitosi da giovane a Roma e vissuto anche a Milano, oltre che negli Stati Uniti – analizzo anche il contesto sociale, politico e culturale in cui si è sviluppata la sua poetica. La cifra espressiva e formale che ha reso noto Consagra è l’invenzione di una scultura tendente il più possibile alla bidimensionalità, sottile quanto basta per reggersi in piedi e concepita in modo da non chiudere lo spazio visivo. Per ottenere questo risultato Consagra non ha considerato la scultura un blocco compatto privo di “finestre”, arrivando a definire certi suoi lavori “trasparenti”.


Ho voluto ricordare l’opposizione del Partito comunista italiano all’arte astratta, nel dopoguerra, ma anche la contrapposizione creata dal critico Clement Greenberg tra astrattisti americani e astrattisti europei con lo scopo di affermare la superiorità dell’arte americana. Come suggerisco nel mio articolo, una comparazione tra l’opera di Consagra e quella di David Smith, anch’egli impegnato a definire i canoni di una scultura frontale e bidimensionale, aiuta a comprendere più di ogni altro commento la portata rivoluzionaria delle intuizioni di Consagra.


Alla fine degli anni Sessanta Consagra elaborò la sua idea di città ideale fatta a misura d’uomo, quella che egli stesso ha chiamato “Città frontale”. Il suo desiderio di vedere realizzati alcuni di questi progetti si concretizzò nella nuova Gibellina, costruita dopo il terremoto del Belice grazie all’impegno di Ludovico Corrao che, da sindaco, immaginò una città interamente progettata da artisti. La mostra alla Collezione Olgiati  include tra l’altro diverse sculture in acciaio inossidabile, alte tra cinquanta e ottanta centimetri, con una base di un metro e uno spessore di poco più di dieci centimetri, sculture che sono in realtà modelli dei suoi progetti di architettura. Tra le foto che accompagnano questa mia anticipazione trovate sia queste sculture-progetto-architettonico sia edifici che si riferiscono proprio all’esperienza da architetto-artista di Consagra a Gibellina.



Didascalie delle foto

  • Copertina e successive due immagini: Veduta parziale della mostra di Pietro Consagra dal titolo La materia poteva non esserci alla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano. Foto Agostino Osio, Courtesy Giancarlo e Denna Olgiati
  • Architettura di Pietro Consagra a Gibellina, Meeting, 1980-84, cemento vetro e ferro. Courtesy Archivio Pietro Consagra Milano
  • Architettura di Pietro Consagra a Gibellina, Teatro, 1989, cemento vetro e ferro. Foto Giacomo D'Aguanno. Courtesy Archivio Pietro Consagra Milano



e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani








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Segnalato da Archivio Ophen Virtual Art di Salerno

domenica 12 settembre 2021

DOMANI / L'Arte in Sudafrica prima e dopo la pandemia.

 


 

  








Demetrio Paparoni    






DOMANI





Su Domani  il Sudafrica prima e dopo la pandemia,  in un testo di Edoardo Ghizzoni, inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.



l’arte in Sudafrica prima e dopo la pandemia




Questa domenica l’attenzione delle pagine dedicate all’arte di Domani è rivolta al Sudafrica. Due artisti di generazioni diverse,  Robin Rhode e  Sue Williamson, discutono con Edoardo Ghizzoni, autore dell’articolo, oltre che del loro lavoro e di alcune caratteristiche dell’arte africana, di  pandemia, di apartheid e di post-apartheid, della rivolta popolare di luglio scatenatasi dopo l’arresto del presidente Zuma, messo in prigione perché si era rifiutato di comparire davanti a un tribunale anticorruzione. Durante i disordini i centri commerciali di Città del Capo e di Johannesburg furono saccheggiati. Come potrete leggere, fatti come questi hanno inciso sul lavoro degli artisti. Con l’avvento dei social, e poi con la pandemia e con gli episodi di violenza alimentati dalle frustrazioni e dalle difficoltà economiche, in Sudafrica si realizzano sempre meno graffiti, ma soprattutto è venuto meno il coinvolgimento della gente in progetti d’arte collettivi. «Nel 2019 Rhode» ­– si legge nell’articolo – «è stato però costretto a rinunciare al suo muro a Westbury perché i tassi di violenza e di guerra tra bande nel quartiere hanno raggiunto livelli insostenibili. Ha realizzato pertanto le sue serie successive di dipinti all’aperto su un muro a Gerico, in Palestina, ben lontano dal Sudafrica. “Il modo in cui il mondo è cambiato con la pandemia” mi dice, “ha limitato la possibilità di lavorare all'aperto e di interagire con gruppi sociali. […] Devo sinceramente ammettere che avverto un senso di fallimento. Inizialmente ho pensato di tornare alla radice del mio lavoro: il muro nel cortile di mia madre a Johannesburg. E che ci si possa credere o no, è lì che sono stato contagiato dal Covid-19. Tutta la mia famiglia è stata contagiata. Perfino la sicurezza e la sacralità dello spazio domestico sono diventate un hot spot per il virus”».
Le due pagine sono ricche di informazioni e considerazioni utili a confrontarsi con la complessità della situazione artistica africana. “Se guardi i principali artisti africani contemporanei, da El Anatsui a Ibrahim Mahama, non operano come singoli, ma come collettivi. Siamo sempre orientati alla comunità: dobbiamo supportare, dobbiamo creare una crescita. È una responsabilità enorme. E poiché non vivo in Sudafrica in modo permanente, ora ho un'identità fratturata. Sono in conflitto tra il sistema artistico europeo e americano che privilegia la voce individualista e l'arte o artista africano che opera come collettivo e dipende da una maggiore interattività educativa e sociale affinché il suo lavoro venga riconosciuto dall’arte globale. Vedo che gli artisti europei non hanno questa responsabilità”.




Prendendo spunto dal lavoro di Williamson, l’articolo mette tra l’altro in evidenza che durante l'apartheid ai lavoratori neri era richiesto portare con sé un passaporto interno che precludeva il libero accesso ad alcune aree abitate da bianchi. A questo tema Williamson ha dedicato nel 1990 For Thirty Years Next to His Heart (vedi foto) composto da 18 pezzi, per mettere in evidenza questa pratica di controllo di cui sta oggi scomparendo la memoria tra i giovani sudafricani.

Questo e molto altro rendono quest’articolo imperdibile. Un’ulteriore considerazione: l’interesse sempre più diffuso in Occidente per gli artisti africani, alimentato da un mercato sempre alla ricerca di nuovi autori non ancora presenti nelle collezioni, ha tra i suoi effetti una sorta di migrazione delle menti migliori nelle capitali dell’arte europee e americane. Questo non accade con tutti gli artisti, ovviamente, ma accade. Molti hanno già un doppio studio, uno nella città d’origine, uno in Europa o negli USA. Che bravi e nuovi artisti approdino nelle gallerie occidentali, siano inclusi in grandi mostre ed esposti da musei è senza dubbio una buona cosa, ma va anche considerata l’incidenza che questo può portare nello sviluppo del loro lavoro. Non è così da escludere che una crescente globalizzazione dei linguaggi artistici possa nel tempo tendere sempre più a ridurre le sane differenze che distinguono l’arte che si produce nelle diverse parti della terra.



Didascalie delle foto
  • Copertina: Robin Rhode, Paradise, 2016, immagine tratta da una sequenza fotografica. Courtesy dell’artista.
  • Sue Williamson, What About El Max? II (We Are Like Fish - Close Up), 2005, inchiostri pigmentati su Hahnemuhle. Foto Rag. Courtesy dell’artista e della  Goodman Gallery, Città del Capo e Londra
  • Robin Rhode, New Kids on the Bike, immagine tratta da una sequenza fotografica, 2002, Stills.
  • Sue Williamson, For Thirty Years Next to His Heart, particolare, 1990, colour laser prints, cornice rivestita a mano, 196 cm x 262 cm
  • Copertine delle recenti monografie dedicate a Sue Williamson e Robin Rhode pubblicate  da Skira.


e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani


Il senso religioso di Andy Warhol


Famoso a livello mondiale come colui che ha portato nell’arte l’estetica dell’effimero e dei beni di consumo, teneva rigorosamente nascosta la sua vita privata e il legame con le sue radici cattoliche


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Dopo l’omicidio di George Floyd, la mostra sul pittore che ha rappresentato la banalità del male con i cappucci del KKK è stata rimandata, per evitare una discussione troppo complicata. I critici sono insorti per difendere la libertà dell’arte


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Segnalato da Archivio Ophen Virtual Art di Salerno

domenica 29 agosto 2021

L’Afghanistan / quando la guerra entra in casa in forma di tappeto islamico afghano

 


 

  






Demetrio Paparoni    






DOMANI





Su Domani  di oggi  l'Afghanistan con i tappeti  islamici da combattimento in un testo di David Carrier, inoltre, alcuni articoli di Demetrio Paparoni.




Quei tappeti da combattimento afghani

 L’Afghanistan è il tema del giorno. Non potrebbe essere diversamente, viste le terribili notizie e immagini che ci giungono da quei luoghi tornati nelle mani dei talebani. Sulla pagina dedicata all’arte del nostro quotidiano oggi il filosofo e critico David Carrier scrive della mostra From Combat to Carpet: The Art of Afghan War Rugs al Museum of International Folk Art (MOIFA), una divisione del Dipartimento degli Affari Culturali sotto la guida del Board of Regents for the Museum of New Mexico. L’esposizione itinerante, curata da Enrico Mascelloni e Annemarie Sawkins, presenta più di 40 tappeti tessuti realizzati a mano negli ultimi quarant’anni, molti dei quali con iconografie legate alla guerra. A fare questi tappeti, poi venduti in Pakistan, ma anche in Europa e in America, sono donne e bambini afghani. I motivi e i soggetti raffigurati sono ben lontani da quelli rassicuranti presenti nei tappeti tradizionali. Vi ritroviamo infatti armi, elicotteri, carri armati, vedute di città attraversate da mezzi militari, mine, ritratti di Ahmad Shah Massoud, il capo militare assassinato da Al-Qaeda nel 2001, o di Amānullāh Khān, il sovrano dell'Afghanistan dal 1919 al 1929. Non mancano tappeti che mostrano l’attacco dell’11 settembre a New York City. Ce n’è anche uno con un planisfero che mette al centro l’Afghanistan (nella foto).


“Si dice che i tradizionali tappeti islamici siano come oasi nel deserto.” Scrive tra l’altro Carrier. “Si stendono a terra e si può immaginare di sdraiarsi su un rigoglioso giardino che cresce sontuosamente, circondato da una vegetazione lussureggiante. Questa è una delle ragioni per cui da tempo i tappeti affascinano gli occidentali che non sanno nulla dell’arte del mondo musulmano. I loro tessuti decorativi trasmettono attraverso la vista e il tatto una sensazione di tranquillità. Ma se mettiamo un tappeto di guerra sul muro come se fosse un quadro, così come accade in questa mostra, o sul pavimento, dove di solito si trovano i tappeti decorativi, ci ritroviamo immediatamente in una zona di combattimento. A meno che non siamo commercianti d’armi, è improbabile che la scena risulti rilassante. A guardare invece i tappeti di guerra appesi alle pareti è come se i combattimenti in Afghanistan ci avessero seguito fino a casa per perseguitarci.”




 Per altro verso la memoria non può che andare ad Alighiero Boetti e a Francesco Clemente che in Afghanistan hanno lavorato. L’articolo non riguarda gli arazzi con planisferi politici fatti realizzare da Boetti dal 1971 al 1993 in Afghanistan e in Pakistan, ma un cenno qui mi è d’obbligo. Boetti fece inserire dalle ricamatrici afghane i motivi delle bandiere dei vari Stati all’interno dei confini dei territori nazionali.  Nelle diverse versioni di questi planisferi che seguirono è possibile rilevare di anno in anno i cambiamenti geopolitici attraverso il variare dei confini e delle bandiere. Boetti inserì nei suoi arazzi anche frasi in farsi. In Pakistan fece realizzare dei tappeti con temi astratti e figurativi.


Didascalie delle foto
  • Copertina: Tappeto afghano che raffigura una moneta da cento dollari, lana annodata. Realizzato attorno al 2001
  • Tappeto con mappa del mondo, lana annodata. Realizzato nell’Afghanistan occidentale prima del 1989
  • Tappeto afghano con ritratto di Amanullah Khan, lana annodata.  Realizzato prima del 1985
  • Tappeto afghano con mappa dell'Afghanistan, lana annodata. Realizzato a Baghlan prima del 1998
  • Tappeto afghano con paesaggio urbano con ponte sul Bosforo, lana annodata. Realizzato nell’Afghanistan occidentale nella prima metà degli anni '80
  • Tappeto afghano che raffigura la Moschea Malabar e Victoria Street a Singapore, lana annodata. Realizzato nell’Afghanistan occidentale prima del 1998




e poi, alcuni  articoli di Demetrio Paparoni su Domani


Il senso religioso di Andy Warhol


Famoso a livello mondiale come colui che ha portato nell’arte l’estetica dell’effimero e dei beni di consumo, teneva rigorosamente nascosta la sua vita privata e il legame con le sue radici cattoliche


I musei ipocriti uccidono l’arte. L’autocensura nel «caso Guston»














Dopo l’omicidio di George Floyd, la mostra sul pittore che ha rappresentato la banalità del male con i cappucci del KKK è stata rimandata, per evitare una discussione troppo complicata. I critici sono insorti per difendere la libertà dell’arte


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