GUGLIELMO ACHILLE
CAVELLINI 1914-2014
Siglare
nelle opere la data che celebra il proprio Centenario è stata una delle peculiarità
nell’attività di Guglielmo Achille Cavellini a partire dal 1971, anno in cui
decise che attraverso un meccanismo di Autostoricizzazione
gli sarebbe stato permesso di incidere sull’identità dell’artista quasi
sempre fuorviata e repressa da un sistema incapace di intenderne le libertà. Azione questa che lo portò a destrutturare le
condizioni del sistema stesso per condurle, a suo piacimento, in un ambito
creativo nuovo che a molti parve un eccesso di megalomania ma che un contesto
internazionale attento e desideroso di un cambiamento di queste condizioni
acclamò come una nuova via dell’arte che, a partire da allora, l’avrebbe
riavvicinata alla vita reale spostandola dalla rigidità evoluzionista in cui
ancora si dibatteva, nonostante gli sforzi delle Avanguardie storiche del primo
Novecento. Un’anticipazione questa che
precorre un concetto di liquidità sociale applicata allo specifico che sembra prevalere
nell’analizzare il sistema complessivo della nostra epoca. Tutto ciò per partire dalla fine e da quel work in progress che non senza un poco
di meraviglia è vicino a concludersi ma la storia di GAC artista, usando l’acronimo
con cui si firmava nel quale si specifica la sua formula comunicativa, ha ben
più complessi antecedenti che di quell’atto finale sono un incipit molto più
coerente di quanto non si possa pensare. Il suo avvento sulla scena dell’arte,
ormai documentato da numerose biografie e autobiografie, si concretizza
nell’incontro con Emilio Vedova a Venezia davanti alla Tempesta del Giorgione e
da allora ne è stato un continuo attraversamento attuato da un arbitro speciale, non un artista come
tanti altri con la sua piccola o grande innovazione, uno stile, ma un individuo
che conduce un giudizio illuminato,
prima sulla sua generazione e poi sul resto del mondo e sulle trasformazioni
che ha prodotto fino a che è stato in vita.
Credo
sia questo l’unico modo per coglierne la presenza, senza fraintendimenti sulla
questione dei ruoli e sui cambiamenti di stato che sono un argomento stantio
nel definire un comportamento che stava ormai nel futuro. Con quell’incontro del 1946 scopre una nuova
arte astratta europea, capace in un attimo di far svanire nel nulla i suoi
primi tentativi espressivi autodidatti che, rivisti oggi, testimoniano la sua
innata artisticità, e ci volle poco perché decidesse che fosse più producente
farsene paladino per metterla in luce verso il mondo piuttosto che continuare
l’apprendistato su argomenti che stavano oramai fuori da quella
contemporaneità. Basterebbe questo
atteggiamento per decidere di escluderlo dalla storia del collezionismo per
introdurlo nella storia dell’arte. E’ questo il suo primo giudizio, un giudizio
da artista che, liberato dai propri fantasmi, sceglie di articolare la sua
presenza all’interno dell’esperienza generazionale che forniva le novità più
pregnanti con cui era venuto improvvisamente in contatto. E’ per ciò che parlo
di giudizio, come poi avverrà per il resto delle sue frequentazioni e si
tradurrà in quel lavoro in fieri di cui si è detto, portandolo al punto di
creare un piedistallo per l’arte degli altri come fosse la sua o quella che non
avrebbe avuto bisogno di fare perché già in atto in un contesto che trovava più
producente condurre piuttosto che partecipare.
Fin qua il primo atto che,
condotto in porto con la pubblicazione del libro Arte astratta e con l’esposizione di una selezione delle opere
presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1957, ne aprì un altro
dove degli altri colleghi non aveva più bisogno. Ha inizio qui l’attraversamento che in definitiva è un giudizio anch’esso ma
sporcandosi le mani producendo da autore a partire dal 1960.
E tutti i Sessanta risultano una sorta di
viaggio propedeutico all’ultimo dei suoi atti che ho citato in testa a questo
scritto, condotto tra citazione e autopresentazione, tra pubblico e privato,
tra costruzione e incassettamento, tra incendio e purificazione, dove se
l’oggetto è sempre l’arte il soggetto è la vita, quella dell’artista ma anche
quella di noi tutti. Appropriandosi delle opere degli altri, attività divenuta
molto in voga circa vent’anni dopo, ne assoggetta la forma a queste sue incessanti
dualità, ne estremizza i significati ed inizia a definirne i confini
sovrastrutturali come nei primi francobolli a partire dal 1966. Che differenza
ci sia rispetto al primo atto credo non sia una questione sostanziale ma che si
tratti di una sorta di delocazione dello stesso atteggiamento dove in un luogo
diverso, con delle architetture create da sé, come con il libro e la mostra in
precedenza, attua la sua presenza verso l’esterno, azione propria della
creazione artistica. In definitiva: non c’è bisogno di creare figure nuove per
parlare di ciò che anche quelle già fatte esprimono. Il terzo atto, ho già detto, ha inizio a
partire dal 1971, anche se le Proposte
dell’anno precedente in cui seziona con atto apparentemente iconoclasta tele di
autori museali sono un antefatto di un cambiamento di stato, anche se ripeto
non di sostanza: la forma altrui non serve più se è di se stesso che si deve
parlare. E quel se stesso siamo tutti noi, l’essere artista è una metafora
dell’essere nel mondo. Il giudizio
diventa filosofico, si parla di identità, di stato, di presenza, e della
biografia come atto primigenio che può assumere valenze divinatorie: l’Autostoricizzazione travalica il tempo ed è posteriore a tutto,
compresa la modernità e la sua stentorea presunzione cronicistica.
Sembra
proprio che ci siano i termini per constatare un’ulteriore preveggente
anticipazione sui tempi a venire che tanti fiumi di parole hanno fatto scrivere
senza individuare il soggetto vero delle cose, l’opera che le accompagnasse.
Ed eccola allora quella scrittura incessante
che copre tutto per svelare la coscienza individuale, il senso di sé nell’essere
attore della coscienza di tutti. E’ con
questo atto nuovo che GAC esplode, come se quelle opere post che necessitano per affermare un pensiero nuovo su se stessi
volesse farle tutte lui. Ed esplode anche la comunicazione, senza Rete senza Socialnetworks, bisogna attuare da soli anche quella e non
lasciare alcunché di intentato. Nascono così le Mostre a domicilio, cataloghi-opera in diecimila copie che
viaggiano in tutto il mondo per rimpiazzare la staticità dei luoghi deputati,
per diffondere, segnalare, scrivere una post-storia
che non ha tutti i vincoli della precedente. Tutto via Posta, il modo migliore
per occupare tutti gli spazi possibili, con una rete che si crea da sé, senza
condizioni, senza mercato. I soggetti
sono sempre gli altri, ma smaterializzati, ridotti ad idea funzionale a sé
stesso, come nelle 25 lettere ai
grandi della storia con cui si coinvolge in relazioni amicali, o I Frontespizi di famosi libri di ogni
tempo di cui diviene il principale protagonista, e così via in un eccesso
parossistico di riscrittura dove tempo e spazio
si frammentano, ed ancora diventano liquidi ed incapaci di costruzioni
stabili ed esclusive.
Sappiamo
bene che la libertà non arriva da questa condizione, anzi come ne abbiamo
riprova oggi ne è ulteriormente complicata , ma se non si scardina il lessico
che la descrive, come hanno fatto i Ready
made duchampiani a suo tempo, non avremo l’occasione per conquistarla. GAC
questa ulteriore operazione la fece a suo tempo, forse troppo in anticipo
perché venisse compiutamente recepita. Chissà che la ricorrenza del 2014, ora
così vicina, non ci porti l’occasione per finalmente riconoscerlo?
Piero Cavellini
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