BIOGRAFIA
/ GUGLIELMO ACHILLE CAVELLINI
Brescia 1914-1990
Guglielmo Achille Cavellini (o GAC, come si firmava) è stato un
personaggio multiforme e geniale che per circa un cinquantennio ha vissuto,
come fosse un arbitro speciale, l’arte contemporanea, dal secondo dopoguerra
fino al 1990, anno della sua morte.
Sta forse qui il cardine per capirlo. Non è stato un artista come
tanti altri, con la sua piccola o grande innovazione. Non è stata una questione
di stile la sua, ma una specie di giudizio illuminato che ha ricondotto
giustamente all’individuo ed al suo pensiero i balbettii di un sistema che si
stava sbriciolando in mille rivoli di potere dove l’arte e l’artista
rischiavano di rimanere nell’ombra. Non è poco si dirà, eppure sembra che tutto
ciò ancora ai più non sia chiaro.
La storia ha inizio sul finire degli anni quaranta quando GAC,
messi da parte i suoi primi tentativi espressivi, scopre una nuova arte europea
che, chiamandosi astratta, coniuga un fronte nuovo della pittura. Ne diviene
uno dei maggiori collezionisti, se ne innamora come pittore e offre il suo
primo giudizio all’arte. Per molti sembra che il suo valore termini qui, invece
quella non fu altro che la scintilla iniziale, un modo per mettere in piedi
un’idea dell’arte come scelta individuale che è stata l’elemento conduttore
della sua esistenza d’artista.
Nel 1960 ha ripreso il lavoro con forza, dapprima sul versante
dell’astrattismo pittorico che tanta parte aveva avuto nei suoi interessi del
decennio precedente, ma con un gesto, un segno nuovi che appaiono ora come
anticipatori del suo lavoro sulla scrittura che prenderà corpo più tardi.
La sperimentazione continua e nel 1965 sforna un gruppo di lavori
che sono un’ulteriore tappa verso un uso diversificato dei materiali. Recupera
dal quotidiano oggetti, soprattutto giocattoli, soldatini, lamette da barba
ecc. che uniti a materiali di discarica vanno a formare una sorta di teatrino
carico di memoria e anche di denuncia sociale.
E’ quindi la volta delle cassette che contengono opere distrutte
(1966-1968) in cui ingabbia i suoi tentativi di lavoro precedente ed anche, e
qui appare per la prima volta l’elemento citazione-appropriazione, opere di
artisti di cui stima maggiormente il lavoro.
Citazione-appropriazione che prende corpo più chiaramente
(1967-1968) con opere formate da intarsi in legno dipinto in cui gioca con
i personaggi della storia dell’arte, ed anche con i primi francobolli, dando il
via ad una ricognizione sulla celebrazione che sarà poi sempre presente
nel suo lavoro.
Nei carboni (1968-1971), che per un certo periodo sono stati un
vero e proprio simbolo del suo lavoro, dove bruciare significa creare il nuovo
purificandosi, coniuga più apertamente i concetti appena accennati nei lavori
precedenti, dalla pittura all’oggetto, dalla citazione all’appropriazione fino
a far assumere a certe icone la valenza di opera propria, usando opere di altri
autori oppure l’immagine dell’Italia in
innumerevoli situazioni e contesti.
Nel 1970 produce una serie di opere, intitolate Proposte, in
cui l’azzardo di appropriazione iconoclasta lo porta a sezionare tele di altri
autori di importante valore storico ed artistico. Il gioco e l’ironia prendono
ancora più spazio lasciando posto anche al dubbio che ci si trovi di fronte ad
un gesto estremo e lesionista (era sì o no Cavellini in tempi passati un famoso
collezionista?).
Nel 1971 c’è una svolta cruciale nel suo lavoro: decide di
rivolgere attenzione unicamente a se stesso per segnalare la deformazione di un
sistema permeato da invidie e chiusure invalicabili. Conia il termine Autostoricizzazione,
che fu una vera e propria puntualizzazione, un modo per mettere in pratica
il suo giudizio. Il termine può sembrare a prima vista un escamotage brillante
e narcisista per mettersi in mostra, ma è tanto forte l’idea da intrufolarsi
nel sistema dell’arte e straripare nei suoi gangli più vitali mettendone in
luce ogni contraddizione.
Le sue Mostre a domicilio furono una specie di vessillo per
tanti giovani artisti con cui ebbe un fitto scambio di arte postale, tanto da
creare uno degli archivi-museo tra i più cospicui ed interessanti di questo
tipo di opere provenienti da ogni parte del mondo. Museo che egli, a più
riprese, disse di considerare “la sua opera più importante”.
Produce quindi i manifesti che innumerevoli musei di tutto il
mondo dovranno usare per celebrare il suo centenario, abbinando al suo
nome la sigla 1914-2014.
A questo punto la fantasia dell’artista, liberata da ogni pudore
verso l’autocelebrazione, si scatena. Nei francobolli entra lui con la sua
mimica votata allo sberleffo.
Scrive una Pagina dell’Enciclopedia partendo da una
semplice cronaca autobiografica fino a sfociare in una vera e propria iperbole
del culto della personalità. La sua scrittura diviene quindi una cifra
pittorica usata con maniacale insistenza su tutti i supporti possibili:
colonne, manichini, tele e drappi di dimensioni enormi.
E’ questa la realtà che vede Cavellini come autentico innovatore,
ed anticipatore anche negli aspetti di una nuova comunicazione nell’arte, scavalcando
i canonici rapporti che sembrano una base inscalfibile del sistema, dando una
risposta concreta e carica di vitalità al suo messaggio di provocante giudice
del territorio dell’arte.
Archivio Cavellini di Brescia