Lettera aperta di Sandro Bongiani al Direttore della 60. Biennale
Internazionale di Venezia Adriano Pedrosa
“A Venezia un emporio equosolidale a
cielo aperto”
Un bazar coloniale del sud del mondo destinato a passare come una
precaria biennale equosolidale indigena del “fuori tutto”, ben sapendo che si è stranieri in qualsiasi luogo e
situazione esistenziale, dimenticando volutamente di trattare la condizione difficile dell’artista che è sempre
stato e sarà uno straniero in patria, al mondo e in ogni tempo.
L’espressione “Stranieri Ovunque” scelto da questa
60. Biennale Internazionale di Venezia 2024 ci vuole far intendere che ovunque
si vada e ovunque ci si trovi l’artista
nel profondo sarà sempre uno straniero. Non viene mai per niente sottolineata
la condizione di disagio dell’artista poco compreso dal sistema dell’arte.
Questa è l’altra faccia della medaglia per niente indagata in questa rassegna. Inoltre, ci
preme segnalare al curatore Adriano
Pedrosa che aveva preso in prestito il
titolo di questa biennale da un’opera «Foreigners Everywhere» (2004-5) del
collettivo italo-britannico Claire Fontaine, che in un tempo non recente ma già
remoto rispetto l’opera di Claire Fontaine vi è stato un autentico “stranger”
come il siciliano Ignazio Corsaro
vissuto per diverso tempo a Napoli fino alla sua scomparsa avvenuta nel
2013 che ha indagato insistentemente dal 1986 in poi la condizione dell’artista
“stranger” producendo a proprie spese
senza alcun finanziamento pubblico da parte delle istituzioni un
insolito bollettino semestrale edito a
Napoli dal titolo “Lo Straniero”, in cui metteva in evidenza
l’isolamento dell’artista contemporaneo di fronte a un sistema arrogante che
costringe e umilia.” Infatti, nel semestrale “Lo Straniero” scriveva: “Prima o poi anche tu sbatterai contro “lo
straniero” perché il vero straniero non è un
estraneo ma te stesso”.
Da diverso tempo si è deciso di negare la giusta attenzione a generazioni di artisti
“marginali attivi” considerati da parte
della critica e dal sistema dell’arte spesso confuso e arrogante poco influenti per il mercato
dell’arte che di contro preferisce proporre insistentemente proposte deboli, valorizzando
volutamente artisti a servizio del potere culturale, come in questa Biennale
di quest’anno incentrata
sull’emigrazione intesa come osservatorio privilegiato del presente con
una decisa e massiccia presenza a Venezia di artisti provenienti dal sud del
mondo di matrice indigena, ovvero
artisti provenienti da comunità o aree geografiche considerate marginali. Tutto ciò ci appare un deludente
stratagemma per buttare fumo
negli occhi e nascondere di fatto i veri problemi che da diverso tempo agitano
le coscienze e le proposte libere relegate ancora ai margini.
Ad
un tema generico scelto da questa biennale bisognava caratterizzare gli
eventi programmati, non semplicemente
nel senso geografico del termine ma
soprattutto umano e esistenziale,
indagando anche la condizione difficile e “marginale attiva” di diverse generazioni
di artisti che in modo solitario hanno continuato a lavorare
nell’isolamento collettivo, alcuni anche
per diversi decenni non curandosi
minimamente del mercato e del sistema ufficiale dell’arte producendo nel
tempo opere per certi versi non conformi ai dettami imposti dal mercato e
proseguendo in un cosciente viaggio
isolato e originale.
A nostro parete
“lo straniero” non è solo colui che si è spostato dalla propria terra,
lo si può essere in qualsiasi luogo, mentre lei caro Pedrosa ha preferito la
visione retorica marginale dello “straniero”, troppo vaga e insieme
troppo indagata in questi ultimi anni,
preferendo di fare una scelta volutamente esotica e coloniale piuttosto che indagare la dimensione del mondo reale con la sua immane
complessità. Un esercizio, il suo,
decisamente distratto, arbitrario e poco
ispirato. nato dalla considerazione che l’esperienza
artistica possa essere riducibile a ricami, arazzi e manufatti artigianali in
cui l’arte, l’immaginazione,
la poesia non sono
qui di casa ma emigrati altrove.
Da alcuni anni a questa parte la Biennale di Venezia si è trasformata in un
gigantesco Luna Park a cielo
aperto e ora con la sua direzione persino in un nostalgico e
multiforme bazar coloniale "equosolidale"
del sud del mondo. Noi crediamo che bisognava altresì indagare e rivolgere l’attenzione
pure a generazioni di artisti non
considerati dal sistema
volutamente in controtendenza rispetto alle “inscenate”
imposte dall’apparato culturale planetario dell’arte, presenze già da
tempo trascurate e rimaste in
ombra rispetto le dinamiche di mercato e dagli approcci sensazionalistici che
caratterizzano l’arte di oggi.
La
nostra impressione è che ad un mercato dell’arte piuttosto “opaco”
caratterizzato da un momento di rallentamento, di incertezza e complessità
economica e politica, il sistema
mercantile abbia deciso di pari accordo tra i diversi interlocutori di attingere a piene mani nel serbatoio primitivo
del sud del mondo allo scopo di ossigenare il mercato con nuove proposte e
presenze da immettere urgentemente a basso costo nel circuito dell’arte. Non a
caso vi è stata una notevole attenzione e apporto di risorse da parte di
gallerie e istituzioni affiliate a supportare un parterre di iniziative e
eventi collaterali ben confezionati sparsi per tutta Venezia, dando credito
alla sua proposta di stranieri coloniali ovunque.
La sua, ci appare una lucida strategia di sistema alla ricerca di nuovi “Gauguin coloniali” dalla
rinnovata verginità primitiva da gestire e imporre, come risulta confermato
dalla presenza di diversi artisti presenti qui a Venezia che prestissimo
troveremo già a Art Basel come ad esempio La Chola Poblete dall’Argentina,
l’artista angolana Sandra Poulson, e l’artista norvegese-sudanese Ahmed Umar. Caro Pedrosa, non è forse così?
Dopo Il Luna Park di Cecilia Alemani e il funambolico Palazzo
Enciclopedico di Massimiliano Gioni, ecco ora anche il suo primo bazar coloniale
del sud del mondo destinato a passare come una precaria biennale equosolidale
indigena del fuori tutto, ben sapendo
che si è stranieri in qualsiasi luogo e situazione esistenziale, per
cui, se si indaga tale tema è doveroso
anche evidenziare la condizione secolare
dell’artista che è sempre stato uno straniero in patria, al mondo e in ogni
tempo.
In tutto ciò permane il dubbio che ci sia stato davvero una sorta di attivismo esagerato deciso dal sistema ufficiale dell’arte, attivando
una serie sorprendente di eventi collaterali col il fine di innescare un
possibile ricambio mercantile di artisti e di opere. Di fatto, la chiamata del
sud del mondo rimane un cambio di rotta che non promette niente di buono per
l’arte tranne che per le finanze commerciali. Ci chiediamo dove sono stati
relegati gli artisti di area digitale e
tecnologica e tutti gli altri che hanno fatto ricerca e sperimentazione.
Una rassegna decisamente folcloristica
dedita all’artigianato coloniale e
decorativo con poca creatività e immaginazione incapace di far intravvedere una
qualsiasi riflessione sulla vita e sul
mondo. Per tale motivo la sua rassegna
periferica del sud del mondo ci appare condizionata da una logica
prefissata quasi subito arenata in qualche secca oscura della laguna veneziana
senza essere stato capace di consegnare a noi un margine di riflessione
per magari intravvedere un barlume di
speranza e di luce. Cordialmente, Sandro Bongiani.