sabato 22 novembre 2008

Il DIBATTITO: DENTRO E FUORI L'AVANGUARDIA

SIGNOR CRITICO POSSO CRITICARE?
(La critica d'arte,dentro e fuori l'avanguardia)
di Giovanni Bonanno & Sandro Bongiani

-Scusi, lei è un maiale?La cultura è stata, da sempre, oggetto d’interesse da parte della politica. Oggi, con la lottizzazione della Biennale di Venezia e della Quadriennale di Roma è aumentata la contestazione verso quei rappresentanti di partiti e sindacati, che per tanto tempo hanno gestito la cultura in Italia. Nonostante la voglia di cambiamento e di giustizia sociale, alcuni “personaggi eccellenti” continuano imperturbati a gestire la cosa pubblica programmando rassegne che non sono altro che duplicati di cose viste nel circuito delle gallerie private. Questa situazione era ben visibile nelle proposte “settoriali” di Achille Bonito Oliva alla Biennale di Venezia dello scorso anno. Nella suddetta rassegna internazionale non tutte le ricerche erano egualmente rappresentate, anzi, si cercava volutamente di mettere nel calderone pubblico tutte le trovate immaginabili, integrate da alcuni lavori storici di Fontana o di Burri, proprio per dare “sostanza” alla rassegna generale che altrimenti diveniva ‘sciatta e di nessun stimolo culturale.Era logico che dopo Barilli a Bologna, il caro “Achille” doveva ripetersi alla grande, proponendo tutto ciò che di nuovo e di strano c’è nelle arti visive. Purtroppo, navighiamo senza stimoli e senza una meta certa, nonostante le contorte e misere ipotesi del suddetto critico, che arriva persino a paragonarsi “a un maiale”. Secondo Oliva: “il maiale ha con la materia un rapporto di necessità. Ma il rapporto di necessità è selezionato dallo sguardo di un occhio a feritoia che corrisponde per taglio ad una sorta di capacità di selezionare la realtà che gli appare intorno. Nella sua compatta plasticità il maiale possiede anche una forma estremamente articolata e imprevedibile:una coda a spirale, elegante, elemento che gli permette, seppur alle spalle,di penetrare nella realtà”. Da qui la teoria “dello sguardo del maiale”, di quell’animale che il critico, secondo A.B.O., deve imitare per stabilire un rapporto di conoscenza con la materia del mondo. La suddetta rassegna come le altre proposte di Oliva non risponde affatto a criteri obiettivi di critica libera e non condizionata. A nostro avviso A.B.O. ha peccato il suo limite perchè concepisce l’arte come qualcosa che non ha più senso e valore:”bisogna seppellire gli artisti con tutte le loro opere per evitare problemi di conservazione”. Così, dopo dieci anni di dittatura transavanguardista, Oliva si accinge a congelare con le sue nuove teorie il sistema dell’arte per un altro decennio. Secondo lui, la rassegna di Venezia voleva esprimere tra le diverse culture in riposta al frazionamento che oggi viviamo al limite delle lotte tribali, dichiarando anche: “ho voluto esaltare più i1 valore dei singoli, la transinternazionalità, con la conseguente contaminazione così viva e feconda dell’originario concetto di nazionalità”. Lo stato d’animo di questi ultimi anni, secondo tali proposte vaga tragicamente tra l’apatia e la più profonda depressione. La colpa la dobbiamo attribuire ai nuovi sistemi di comunicazione e soprattutto alla tivù che ha appiattito irreparabilmente il globo riducendo le diverse culture ad un monologo tutto eguale. Da dove ricominciare? Sicuramente dal recupero della coscienza storica. In un’epoca dominata fortemente dalla pubblicità, dalla moda e dai finti bisogni consumistici, tutto diventa terribilmente inutile e forviante. L’arte non sa più da che parte dirigersi, versa in uno stato confusionale. Per un critico non è un buon metodo inseguire le continue proposte “a la page che un certo sistema pseudo-culturale e mercantile ci propone nella presunzione di interpretare la società. Ormai c’è chi concepisce l’attività del critico come riflessione sull’arte e quindi rivendica una funzione critica intrinseca o addirittura precedente allo stesso fatto creativo, chi vuole ridurre il valore dell’opera a mera merce di scambio e chi vuole omologare le diversità della cultura ad un livello di basso contenuto culturale. E’ tale la “confusione” in cui operiamo che gli studiosi hanno il dovere di parlare chiaro; si tratta di mantenere un certo impegno e nello stesso tempo una certa distanza. Come giustamente afferma Flavio Caroli: ”se molta critica avesse dimostrato la lucidità necessaria, l’arte non avrebbe nell’armadio i molti cadaveri che si aggirano nella nostra testa”. La critica deve saper valutare il peso delle singole personalità, quindi ha precisi doveri di chiarezza verso il pubblico. Essa può esistere solo se riesce a trovare l’autonomia di ciò che è poetico e creativo. Purtroppo l’intervento critico, oggi, viene strumentalizzato a fini biecamente utilitaristici per cui la libertà diventa impedimento e costrizione. C’è persino chi arriva ad impossessarsi di un testo critico non suo, per poi riutilizzarlo ai propri fini personali. Che dire? Di certo ad una cultura cosiddetta colta vi è una pseudo-cultura che dal basso non rimedia agli equivoci fin qui prospettati. Una critica che non desidera utilizzare la propria libertà creativa non è degna di esistere. L’intellettuale deve riflettere attentamente e leggere in profondità le varie situazioni personali, non affidandosi alla sola sensazione come se fosse l’unica possibile e non dimenticando le finalità vere del suo lavoro. Quella di oggi è una realtà assai complessa che ha bisogno di strumenti precisi. Senza la fantasia e l’esame attento di ciò che ci circonda, l’intellettuale è destinato a morire. Questo è il destino di chi non utilizza a dovere la libertà e nella”confusione” riduce tutto in cenere.

-I sogni e i bi/sogni dell’arte
All’inizio l’artista assomigliava a Dio, possedeva la capacità per creare, oggi, è passato da creatore a semplice produttore, da artigiano a demiurgo. Le esperienze artistiche, nel corso di tutta la storia dell’arte, hanno avuto l’urgenza di essere il tramite per comunicare e produrre conoscenza. Ormai, non c’è più concentrazione, visione personale; tutto sembra identico e maledettamente consueto. Conoscere è diventato sinonimo di comunicare, ma comunicare significa creare? I giovani artisti di oggi sembrano molto aggiornati sulle varie ricerche artistiche in atto; sono convinti che basti conoscere le diverse riviste d’arte e ripetere certi stilemi richiesti dalla critica e dal mercato per poter fare arte, non riescono a capire che l’arte è un fare e non un rifare creare e non un ripetere, con il solito problema di ritrovarsi in una situazione altamente omologata, che si alimenta di provvisorietà e di esiti formalistici e decorativi. I tentativi di alcuni giovani studenti di Accademia in cerca di una visione particolare, possono essere anche giustificati. Non sono però giustificabili, proposte ingenue di tanti profittatori dell’arte, che consapevolmente, si fanno trainare dal mercato in strategie poco credibili e di scarso valore culturale. Herbert Marcuse, ne “L’uomo a una dimensione” scriveva: “liberare l’immaginario presuppone la repressione di molte cose. Una repressione liberatoria come antidoto alla (tolleranza repressiva)della società liberale. Essa non si libera da sola poiché è prigioniera dei suoi falsi bisogni”. Di certo, questa è una società povera di proposte, appiattita, quasi ad una dimensione Tanti artisti credono che basti fare gruppo e proporre delle “cose”, per poter fare arte. Questa voglia sfrenata di essere sempre presente in qualsiasi situazione impedisce a loro di comprendere appieno il limite di certe proposte, sembra che utilizzino l’occhio strabico di chi non vuole (o non riesce) svelare il proprio immaginario più intimo, censurando la propria creatività a tal punto da divenire balbettio “à la page”. L’arte non è ciò che si chiama “arte”. L’arte è ciò ch’è arte.” Elena Di Raddo, in un suo saggio approfondisce tali problematiche, affermando: “gli artisti giovani sono cresciuti sulle rovine di un’epoca carica di ideologie, coccolati dalla televisione e dai miraggi a portata di mano. E i sogni trovano poco spazio in una società che concede tutto senza fatica, che propone, quali mete, obiettivi del tutto privi dì significati culturali o ideali : l’automobile, la discoteca, il cellulare”. L’arte dei giovani esprime semplicemente la società dei giovani, le inquietudini e le incertezze affondate in un disperato attaccamento al godimento immediato, al consumo del piacere inteso quale prodotto qualsiasi della società , del benessere. Diventa primordiale, per questi giovani gestire alla meglio se stessi a livello manageriale, visitare certe gallerie, conoscere i critici al fine di far conoscere i l proprio lavoro, assecondando, spesso, le ultime proposte critiche. Un modello di ricerca -conclude Elena Di Raddo - che rischia di essere assimilato e assorbito all’ideale di uomo che la società contemporanea impone; un uomo che non trova più il tempo e lo spazio per sognare e per riflettere sulla sua difficile condizione. Tale questione, per un artista, è molto complessa e anche non facile da dipanare, bisognerà capire se desidera calarsi nel misterioso mondo del proprio io, invece, continuare a proporre discutibili ipotesi di lavoro, dove l’idiozia e la provocazione diventa pretesto e anche paralisi di idee. Ci ritorna in mente una mostra dal titolo :“Arte e misfatti” vista alla Galleria Pilat, con alcuni artisti che ripropongono in forma provocatoria il”ruolo” dell’artista nella società. A tal proposito, Rossana Bossaglia, scriveva la storia dell’arte è in larga misura storia di un’attività messasi al servizio del potere; o che rivendica per se una funzione di estraniamento dal quotidiano”, -e più avanti- ”chi scrive queste righe ha già formulato più volte l’opinione che l’arte concettuale avendo assunto tratti di gratuita divagazione, esaurita la sua funzione dissacratoria, ed essendo diventata a sua volta oggetto di mercato, abbia chiuso la sua funzione” -ammonendo- “questa piccola mostra suoni come memento agli artisti perché riflettano sul loro ruolo: abbiamo certo bisogno di arte come bellezza ma non di arte come evasione, in una società già troppo evasiva e anestetizzata”. Certamente, si ha paura di guardarsi allo specchio e vedere la nostra immagine riflessa, che forse non conosciamo e che ci crea fastidio. Questa situazione statica e indefinita dell’arte l’abbiamo, più volte, rilevato nei vari “Aperto” della Biennale di Venezia, che ha mostrato, sempre, il lato più precario dell’arte; quello della mera catalogazione di eventi neo e post-concettuali senza alcuna nuova ipotesi progettuale di lavoro. Inoltre, con l’ultimo “Aperto” della 45 a Biennale di Venezia, A. B. Oliva ha dichiaratamente abolito qualsiasi ipotesi di ricerca perché, ormai, non crede più nell’arte e quindi neanche in una creatività particolare e individuale. Secondo noi, un ipotesi personale di lavoro può nascere solo se esistono autentiche motivazioni. Purtroppo, l’artista contemporaneo si trova a un bivio; dovrà per forza scegliere se farsi assorbire dai mercato, producendo oggetti e cose legalizzati dal sistema ufficiale dell’arte, o guardarsi dentro e trovare le proprie motivazioni. Il futuro dell’arte può esserci, se verranno evidenziate tali possibilità creative e isolate di lavoro. Tutta l’arte passata è stata sempre definita da figure isolate che hanno preferito, giustamente, concretizzare il proprio lavoro nella sostanza del fare arte e non necessariamente nel presenzialismo e nella mercificazione. Queste brevi considerazioni ci fanno riflettere sulla precarietà anestetizzata del lavoro di tanti artisti e sulla non originalità degli interventi prodotti.

-Il tempo tra scienza e arteMai prima d’oggi l’uomo si era trovato di fronte a una situazione di “s-naturazione totale” come ai nostri giorni. La civiltà tecnologica ha sconvolto il normale rapporto uomo-natura, frantumato il consueto concetto di spazio/tempo e consolidato il senso della perdita. La rapidità e l’accelerazione della nostra esistenza ha condizionato negativamente tutta la civiltà moderna. L’isolamento del nostro tempo da quello della natura, il movimento continuo e nomade dei nostri spostamenti è diventato un elemento essenzialmente “artificiale” non più legato ai normali ritmi. Una volta si partiva per un viaggio, si percorreva un itinerario e si arrivava in un predeterminato luogo con una esperienza ben precisa dello spazio e del tempo, in una dimensione temporale che implicava”la durata”come elemento fondamentale per meglio conoscere il tempo. Ora con i nuovi satelliti in volo, con i nuovi mezzi di. comunicazione come la televisione e i sistemi computerizzati si è assistito ad una contrazione totale di questi momenti. La dimensione spazio-tempo della terra e dell’universo si è contratta a tal punto da cedere il passo alla velocità della trasmissione televisiva in tempo reale. Il tempo non è una realtà, ma una metamorfosi di figure, ogni intreccio può diventare una costruzione, quando, però, la proposizione aurea perde la sua giusta misura, il campo tra presente e futuro si dilata smisuratamente, così il reale si trasforma; ormai nulla è misurabile, non esistono più neanche modelli stabili. La velocità come nuovo assoluto dell’uomo contemporaneo ha modificato definitivamente la realtà e consolidato lo spostamento dalla materia alla luce, in una dimensione essenzialmente “immateriale” e inoggettiva. Di certo la”realtà artificiale” sta cambiando la percezione del mondo per una visione nuova dell’arte, un nuovo modo di vedere tutto improntato ad una realtà rimossa. Purtroppo non c’è più scenario il cielo e la terra si sono fatti distanti e confusi. L’esplorazione di zone oltre la stratosfera della terra hanno rivoluzionato i tradizionali concetti di spazio ( prospettico, reale). Lo spazio non è più un vuoto che aspetta di essere colmato e vitalizzato. L’esplorazione dello spazio cosmico ha creato una contrazione dello spazio infinito. Guidare l’automobile lungo una autostrada è diventato sinonimo di un andare in nessun luogo, verso il”non spazio”. I nuovi satelliti che vengono lanciati nello spazio, visti in televisione, sembrano una volta in orbita, ghiacciati, girano attorno alla terra secondo orbite prestabilite si muovono in un vuoto “congelato” senza andare in nessun luogo. Lo spazio stratosferico fa galleggiare e allo stesso tempo travolge gli uomini senza gravità, fa apparire l’uomo inutile. L’aumento di velocità nella nostra vita e nei nostri scambi ha generato una concezione spaziale tutta proiettata nel vuoto spaziale e dell’essere. Queste iniziali considerazioni ci impongono un cambiamento sostanziale, una presa di coscienza sul modo di pensare e produrre arte al fine di costruire una nuova visione che sia adeguata alla complessità della nostra società; una società che ha perso i consueti punti di riferimento e ha creato la costrizione e il grande vuoto dell ‘uomo contemporaneo.

-La cultura dell’ingannoIn Italia, ogni anno, specialmente durante il periodo estivo, vengono allestite costose mostre al fine di fare il punto sulla situazione attuale dell’arte contemporanea e con lo scopo essenziale di fissare un pò di ordine nel sistema caotico delle ricerche figurative. Ogni decennio, il nostro Renato Barilli ci ipotizza dove andrà l’arte nei prossimi anni (Gli anni novanta). Naturalmente, il solito A.B.O. (Achille Bonito Oliva), di volta in volta, cambia pelle e si ritrova a prospettare, anche lui, nuove situazioni e nuovi personaggi. Sono ormai tanti i giovani critici alla moda, tutti pronti a lodare i cascami di questa società ormai‘omologata”, con un frasario critico poco credibile; vedi il giovane Marco Senardi, che recensendo su Flash Art una mostra di Remo Salvadori, alla Galleria Stein di Milano, scrive: “........sulla parete più grande si allineano delle sagome di rame che mimano delle specie di tazze; sulla parete più piccola dei fogli di piombo sono bucati in forma di decoro ripetitivo; un grande “tavolo” di rame, occupa tridimensionalmente lo spazio, affiancando, in questa opera di appropriazione, da un rotolo di lamiera di rame sormontato da un foglio macchiato e da due contenitori di vetro rovesciati. Evidentemente lo iato tra rappresentazione e scultura si dipana tra superficie bidimensionale e tridimensionale: il piombo mostra la sua “altra faccia” nel traforo che lo estetizza, l’effetto tridimensionale delle “tazze” è dato semplicemente da due fogli sovrapposti di rame, mentre un foglio arrotolato diventa una “scultura” cilindrica”. Solo leggendo un testo del genere si può comprendere la triste condizione di cui versa la giovane critica contemporanea. Chissà perché i cambiamenti in arte dovrebbero avvenire ogni 10 anni, a scadenze programmate? chissà perché si ha tutti voglia di appropriarsi di giovani, magari alle prime armi e prospettare ipotesi possibili e situazioni nuove? Credo che la velleità della critica si mostra proprio in queste contraddizioni; si crede che una data anagrafica sia sinonimo di una possibile nuova visione “tutta contemporanea”, per cui un artista di media età si considera, quasi sempre, incapace a prospettare situazioni nuove di ricerca. Si parla molto di giovani e si rinnegano artisti che da anni lavorano solitari e appartati. In questo palcoscenico della confusione succede proprio di tutto. Ormai, non esistono più personalità indipendenti o ricerche personali, in questo villaggio globale, quasi tutta la produzione dei giovani artisti si assomiglia, per rendersene conto, basta visionare le pagine di certe riviste d’arte alla moda, in Italia o all’Estero. Si dice ch’è il gallerista oggi a dettare legge, non più il critico. E’ vero. Chi vuole stare al gioco del “successo” deve supinamente accettare certe idee imposte dall’alto. D’altra parte le multinazionali sono in grado di sviluppare strutture e situazioni, e queste creano gli artisti che spesso, sono intercambiabili come per i personaggi delle telenovelas. Oggi conta, soprattutto, la forza che ha il gallerista e con l’aiuto di qualche critico amico si possono “confezionare” con facilità situazioni tipo trans, neo, geo, post e via dicendo. Basta avere i soldi. Inoltre, in questi ultimi tempi i principali acquirenti non sono più dei privati, bensì società e musei, pertanto l’arte giovane si mostra con allestimenti, eventi, interventi plateali da veri scenografi dell’arte. D'altronde, le mostre sono ormai diventate una specie di “messa della domenica” dove si creano occasioni d’incontro tra personaggi che utilizzano l’evento per parlare di lavoro e firmare contratti finanziari di vario genere, per cui c’è bisogno di manufatti voluminosi per ricevere autorità, imprenditori o personalità di alto rango. Di fronte a questa nuova situazione meramente commerciale, la critica si trova spiazzata o quanto meno indifesa. Non è più possibile dire ci piace o se è banale quell’oggetto; i giudizi sono “inutilizzabili”. Del resto, l’arte non è più l’antitesi della società dal momento che l’artista aiutato finanziariamente, ha il compito di giocare con l’arte firmando qualsiasi oggetto o proponendo prodotti artistici di scarso valore estetico. A questo punto, per capirci, è il caso di parlare delle appropriazioni ludiche di quel famigerato personaggio dell’arte Americana che si chiama Jeff Koons che attualmente si trova citato in Tribunale per aver infranto le normative sui diritti d’autore, poiché ha utilizzato, senza autorizzazione, immagini di altri autori, o dei banali collage del Giapponese Yasumasa Morimura, che facendo dello spirito intorno alla pittura, sì permette di incollare fotografie di bambole tipo Barbie sopra crocifissioni di Cranach o di Durer. Ormai, per stupire qualcuno, l’artista deve inventarsi delle trovate impensabili, come per esempio: mostrarsi nudi al pubblico,con una farfalla vera tra il pene e il deretano, o mostrare come è il caso di Elena Berriolo, recinti di tela che danno una breve scossa elettrica allo spettatore che si avvicina. Mi chiedo, per comunicare bisogna arrivare a tanto? Naturalmente la colpa è anche del grande pubblico, poco educato all’arte, distratto, disinteressato e distante mille miglia da tali proposte,che fa inconsapevolmente il gioco dei soliti negrieri della cultura. Jonathan Borofsky, partecipando ad una rassegna d’arte tenuta recentemente a Berlino (Metropolis), si permette di mostrarci un pupazzo gigante in tutù da ballerina che muove una gamba come al carnevale di Viareggio, o Jan Fabre che ci fa vedere dei grandi contenitori di legno colorati blu “con la penna a biro”, e per di più si stupisce come il pubblico non riesca a capire la fatica dell’artista, in questo lavoro, secondo lui, davvero certosino. C’è chi mostra animaletti tipo Topo gigio o Topolino, chi cassette per pulcini, chi abbeveratoi per uccelli chi propone, anche, relitti di vere barche naufragate (Jannis Kounellis). Ormai ogni cosa va bene. Si gira da una galleria all’altra, da Milano a Parigi o New York e si ritorna allo stesso punto e alle stesse conclusioni di prima, però, con tanta confusione in più. Si ha la sensazione che l’arte sia veramente “morta”,come da lunghi anni afferma Argan. Forse di questi problemi dovrebbe occuparsene il sociologo, magari per capire come fino a poco tempo fa non si faceva cultura senza parlare di politica (Cina ,Vietnam) e oggi, disinteressati, ce ne freghiamo di tutto e di tutti, con i gravi problemi che attraversano l’intero pianeta, dalla situazione dell’Irak. alla guerra civile Yugoslava o alla triste realtà della Russia, che senza chiari progetti va sempre di più alla deriva. Non si capisce come si può fare arte senza considerare la situazione sociale, senza prendere coscienza della società che si trasforma e magari degenera in situazioni nuove, inaspettate, imprevedibili. Come si può far affidamento a certe trovate da baraccone piuttosto ludiche e ingenue, non per niente ironiche come ci vogliono far credere, che spingono l’arte e la creatività ad una sorta di grado “zero”, per niente utile a questa società, che oggi come non mai, ha bisogno di”certezze”.

-L’arte tra natura e tecnologiaViviamo in una società globale piena di contraddizioni; la natura è sovrastata dalla cultura , persino il concetto di morte ha perso il suo naturale significato, la riproduzione non confina più con il sesso. Di certo non esistono più limiti. L’uomo non ha perso soltanto i naturali riferimenti che aveva con la natura ma persino il desiderio di sognare. Gillo Dorfles si chiede: “se è vero che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, l’uomo a sua volta si è da sempre sforzato di costruire ogni immagine a sua misura, tentare una resa del mondo circostante attraverso quello che potremmo definire: somiglianza, simulazione, analogia, simulacro, mimesi”. In un certo senso l’uomo ha sempre cercato di essere creatore d’immagini, tal volta sforzandosi di imitare la natura, fino a decidere di contraffarla e di sostituirla nell’artificiale. Ormai si vive una situazione complessa e deviata. Voler assumere “la diversità del reale”,l’uomo vive una situazione “anomala”. / La realtà virtuale.Con l’avvento della tivù e del computer, si vive la realtà della “simulazione significante”, una realtà in cui gli eventi naturali vengono attraversati da accorgimenti che ne alterano le componenti temporali-spaziali, dandoci l’illusione di una verità. In questa situazione, la realtà viene spesso sostituita con quella “virtuale”,la guerra del Golfo riportata dalla CIN, è stata un esempio angoscioso di realtà virtuale. L’umanità ha vissuto l’evento bellico davanti alla tivù come attorno ad un camino. Per un certo tempo abbiamo creduto che si poteva fare una guerra senza morti, più tardi abbiamo compreso, purtroppo, che non era solo “simulazione” ma realtà vissuta come gioco, quasi una seconda realtà “l’informazione” parallela e sovrapposta alla realtà dell’evento. La realtà simulata e immateriale è entrata anche nel nostro privato più intimo; in futuro sarà possibile proiettare il nostro corpo in spazi virtuali dove lavoreremo e faremo l’amore con persone che si trovano in altri continenti e magari non conosciamo./La manipolazione genetica Oggi si sente più spesso parlare di entità biologiche che appartengono alla specie umana, che non possono essere considerati ”persone”, dal momento che sono embrioni congelati e archiviati in centri contro la sterilità in attesa di un possibile utilizzo. Anche i corpi che gli apparati dei centri di rianimazione mantengono “artificialmente” in vita, senza una attività celebrale o l’uso indiscriminato di organi che la chirurgia dei trapianti utilizza ci obbliga ad. una riflessione profonda su cosa si può fare e cosa si deve fare. La chiesa Cattolica opponendosi all’intrusione delle scienze sulla sfera della nascita e della morte, difende quel regno della “casualità”, della provvidenza, dell’evento, insomma la vita intesa come durata non programmata e imprevedibile, fra un inizio e una fine dominata dal fato e vissuta come “dono divino”. Questi concetti “naturali” si stanno rapidamente esaurendo, lasciando il posto a interventi artificiali di fecondazione, di chirurgia dei trapianti, a terapie di rianimazione e di prolungamento artificiale della vita che consentono di trasformare, almeno in parte, la nascita e la morte, la durata della vita, l’invecchiamento e persino la trasformazione quasi completa in senso estetico del proprio corpo. /L’arte in questa situazione anche l’arte è costretta a fare i conti con queste nuove problematiche.La produzione creativa vive la dimensione conoscitiva di diverse ricerche e scoperte che vengono “filtrate” dall’artista, confrontate e sublimate in una cosa che chiamiamo “creatività”. La produzione creativa risente di questi nuovi fattori, ne è condizionata per cui produrre oggi al di fuori di queste coordinate non ha nessun senso. L’artista, da sempre è un produttore di immagini che vengono fuori dalle nuove scoperte della fisica e delle scienze; deve per forza leggere in profondità., dentro una complessità. del sistema socio-culturale. Jeffrey Deitch che ha curato la mostra “Post-Humain” al Museo d’arte Contemporanea di Losanna, al Castello di Rivoli, al Desto Fondation for Contemporary Art di Atene e al Deichtorballen di Hamburg, è convinto che i progressi nella biotecnologia e nell’informatica stanno variando i confini in corrispondenza dei quali si celebra la fine dell’uomo e l’inizio del post-umano. Secondo il curatore le nuove problematiche in atto contribuiranno a ridefinire “una nuova costruzione dell’io” determinata dall’applicazione consueta di tecniche di trasformazione fisica; la chirurgia plastica, gli interventi a livello celebrale, l’inseminazione artificiale, l’aborto e l’ eutanasia diventeranno una prassi per cui bisognerà reinventare se stessi . Si dovrà necessariamente ridefinire i parametri dell’esistenza stessa in un regno evolutivo artificiale. La nostra società. accederà presto alla sfera “biotecnologica” che ci consentirà di scegliere direttamente il modo nel quale desideriamo avvenga l’evoluzione futura delle speci viventi. In arte, oggi, emerge un rinnovato interesse verso il corpo, alcuni artisti presenti in questa rassegna dimostrano di essere molto interessati a tali problematiche, infatti, tentano di rispondere a corti interrogativi. Robert Gober, con l’opera “Two Spread Legs” del 1991, dissemina frammenti e lacerti corporei nello spazio reale creando stati emotivi da cortocircuito. George Lappas in “New Members Forthe Burghers of Calais” del 1992, accumula parti di corpo, riprese e desunte dal passato e dal presente. Secondo noi, il più ossessivo risulta l’artista Kiki Smith che dispone sul pavimento un uomo grondante di secrezioni. Sembra di poter condividere tali proposte incentrate ad una definizione nuova dell’io, attraverso la commistione di fantasia e finzione. Sicuramente alcune giovani proposte pervengono ad una riformulazione “schioccante” dell’umanità, che trasmette una impressione inquietante della condizione post-umana verso la quale ci stiamo avviando. Avremo presto possibilità di liberarci delle costrizioni e dai legami con il passato, ma saremo in grado di crearci un’identità adeguata alla nuova situazione?

-Ci scrive Michelangelo Merisi /Perchè un armistizio?Si racconta che un leone, ruggente, Renato se lo era fatto spedire da Amsterdam a casa sua, e l’aveva sistemato in quel caotico serraglio dove convivevano i più svariati animali, già utilizzati in tante “mostre di gruppo”. In conseguenza del rigore carcerario e dell’errata alimentazione, il leone venne a soffrire di stitichezza, sicché si pensò di purgarlo. Con un sistema ingegnoso d’assi li si circoscrisse lo “spazio libero” fino a imboccargli la canna di peltro nel deretano, tenendogli ferma la coda attraverso le sbarre. il furore del re del deserto, però, giunse al colmo, facendogli squassare la gabbia. I somministratori del clistere; allievi del famigerato critico, fuggirono, insieme a Renato. L’intero serraglio era libero. Ma che centra il leone? E’ l’artista in gabbia, costretto a vivere in condizione di perenne disagio, di condizionamenti culturali (la critica creativa), che spingono l’arte verso una prospettiva omologata del fare. Questa breve storia, mi fa pensare a Caravaggio (Michelangelo Merisi), al triste vagare del suo corpo, da un posto all’altro in cerca di se stesso, da autentico uomo libero. Me lo immagino sdraiato nella spiaggia di Porto Ercole, impazzito per aver perduto la barca con le sue robe, bruciato dal sole, e delirante, cercare di stendere questa breve profetica e ironica dichiarazione prima di morire (18 luglio 1610). Caro Giovanni, approfitto di questa occasione per parlare di alcune idee convergenti sulla necessità di dichiarare un “armistizio” fra quelli che si contendono l’arte. Da una parte l’artista, il quale sceglie questa professione fra tutte le altre, perchè spera di sfuggire alla morsa alienante della vita e di perseguire, magari illudendosi, la sua aspirazione a vedere il mondo a modo suo,in libertà. Dall’altra i mercanti, gli speculatori e i profeti dell’ultima moda, che vedono nell’attività creativa uno strumento capace di fare leva sulle ambizioni dell’uomo; la politica la ricchezza, il potere, il successo. Perchè un armistizio? Perchè un armistizio implica una pausa, un periodo di tempo durante il quale gli scambi fra i contendenti sarebbero sospesi. Un periodo, dunque, durante il quale si potrebbe impiegare il tempo a meditare e riflettere. Un riposo dell’arte, che permetterebbe, intanto, la chiusura dei musei, delle scuole d’arte e di tutte le gallerie private. Moltissimi critici d’arte, specialmente quelli di moda “ad ogni costo”, fino ai giovani critici alla “flash”, dell’ultima leva, si metterebbero, finalmente a riposo, dopo anni di grandi successi e di ardite trovate. Con le “gallerie chiuse”, molte signore potrebbero tornare ai loro amanti e orientare i loro interessi verso cause più urgenti, come la Croce Rossa, l’ecologia, la moda, la menopausa. Gli artisti, nella quiete dei loro studi, potrebbero dedicarsi, con passione, alle ricerche più pazienti e inutili, senza preoccupazioni immobiliari, come uomini saggi e felici, piuttosto che come cambiavalute angosciati. In seguito, con più ordine e al momento giusto, si potrebbe anche ricominciare.

-Quando la Pop con un paf fa tonfCome ogni estate ci capita di visitare rassegne “soft”dedicate ad un pubblico sempre più. distratto. Il leghista Philippe Daverio, gallerista e ora assessore alla cultura del Comune di Milano ha deciso di riaprire i battenti del Pac (Padiglione di Arte contemporanea), dopo tre anni dall’attentateti che lo aveva distrutto il 27 luglio 1993, dedicando un “Omaggio a Leo Castelli”, ovvero agli artisti che il gallerista italiano di nascita ma newyorkese di adozione ha lanciato e sostenuto in circa 50 anni di attività. In arte, in questi ultimi decenni, si sono avuti situazioni sempre più imprevedibili; la Pop Art, l’Optical Art, l’Arte Povera, il Concettuale, l’Ipperrealismo fino alle ultime preposte di oggi che riprendono e ripetono modi e percorsi di questo recente passato. Leo Castelli, nella sua galleria di Soho a New York, aperta nel 1957, ha trovato il modo di accogliere tanti artisti,da James Rosenquist a Claes Oldenburg, da Rauschenberg a Frank Stella, da Jasper Johns a Andy Warhol, da Flavin a Joseph Kosuth. Le 43 opere di venti artisti americani offrono un panorama. assai interessante della storia artistica degli ultimi trent’anni in america. Vengono esposte opere come le famose scatolette “Brillo”Andy Warhol, le “Two Flags” di Jasper Johns, i “Diplomat” di Robert Rauschenberg, fino alle “Untitled” di Dan Flavin create nel I975. Secondo il curatore, si è voluto organizzare una mostra che da un lato servisse a fare il punto su quella svolta storica avvenuta nel 64 con la Pop Art alla Biennale di Venezia, e dall’altro il tentativo da parte del Pac di “divenire” una finestra aperta sul mondo”, come afferma Lucia Matino, conservatore alle raccolte d’arte per il Comune di Milano. Il Pac, secondo Leo Castelli, sembra un ottimo spazio che può sicuramente diventare competitivo per chi volesse esporre delle opere. Alla domanda “qual’è lo stato di salute dell’arte.”, Leo Castelli ha confermato quello che noi da tempo pensavamo: ”in questo momento non vedo novità, non ci sono nuove correnti, per lo meno che rivestano un qualche interesse -aggiungendo- forse stiamo vivendo un ciclo discendente. Chissà, magari è perchè deve cambiare la maniera di fare arte”. E’ come se gli artisti oggi, faticassero a trovare una nuova strada espressiva e un nuovo modo di fare arte.-Lo sguardo indefinito dell’ArteIn questi ultimi tempi abbiamo visitato diverse rassegne tutte incentrate sulla giovane situazione dell’arte contemporanea,come per esempio, quella di Rivoli, dal titolo:“Soggetto/Soggetto”,curata da Giorgio Verzotti e Francesca Pasini, in cui si cerca di analizzare l‘arte come modalità specifica di interrogarsi sul mondo, con esperienze che vanno dall’installazione al video e al computer. Gli artisti presenti a questa mostra, come Gabriel Croczo, Cesare Viel, Maurizio Cattelan, Liliana Moro, Tommaso Tozzi, Federica Tiene , lavorano attorno ai concetti di identità, e diversità, con soluzioni immaginative di basso valore artistico, miscelando il fascino tecnologico con l’indifferenza ed il pretesto. Lavori anche ansiosi, ma poco significativi rispetto a11’indagine che la mostra tenta di analizzare. A Madrid, abbiamo visto la rassegna “Cocido Y Crudo” al Centro Reina Sofia; quasi “un Aperto 95”, organizzata dal giovane e discusso critico Dan Cameron, con circa 50 giovani presenze di quasi tutto il pianeta che propongono le ultime e aggiornate proposte di ricerca. E’ proprio dal .neo-concettualismo che Dan Cameron attinge per formulare tali ipotesi. Il giovane critico è convinto che ogni paese, nonostante le informazioni in tempo reale , conserva. una propria arte legata allo specifico luogo territoriale. Secondo Gillo Dorfles: “purtroppo si tratta di un’ancora che affonda nella melma del dejà vù concettuale, del bricolage oggettuale e del mirabolante tecnologico”. Ipotesi fragili , come de] resto abbiamo più volte evidenziato; vedi le proposte “calde e fredde” formulate da Renato Barilli. Ormai c’è chi la vuole cotta e chi la vuole cruda. Per noi, troppo caldo significa rivisto e rifatto e ci piacerebbe vedere un po’ di crudo, di originario che non riusciamo a scovare. Ritroviamo, ancora, il già visto delle ultime situazioni, i soliti artisti come Wim Delvoye, Stefano Arienti, Kiki Smith. Si chiede Dorfles: ”dov’è finita la pittura? Qui solo oggetti, frantumi, meccanismi inutili, fantasmi elettronici utilizzati nelle dubbie invenzioni cyberspaziali per trabocchetti illusionistici”. Sicchè -conferma Dorfles-“siamo sempre allo stesso scoglio: voler scavalcare i cadaveri esangui di pittura e scultura senza sapere come sostituirli o come resuscitarli”. Del resto, anche la figurazione non è che navighi in buone acque. Possiamo dedurlo facilmente dalla visita al Castello d Rivoli, a Torino. Una mostra incentrata su due artisti: Francis Bacon che rappresenta il recente passato della pittura e una novizia olandese, Marlene Dumas, classe 1953, che rappresenta il presente. Il lavoro della Dumas è di matrice baconiana ridotta a figurazione “neo-concettuale a tempo parziale”, come ama definirsi la stessa artista. . Alla Dumas viene riconosciuta una certa inventiva nella scelta dei titoli, che dovrebbero indicare in quale direzione orientare la visione del dipinto Tuttavia, crediamo che l’arte non è solo titolo e programma, ma rivelazione e visione lucida. Abbiamo la sensazione, che da questo confronto ne venga fuori una Dumas massacrata e stritolata dalla forza visionaria del grande Bacon. Questa e la stessa sensazione che abbiamo provato vedendo le opere dell‘ artista olandese alla 46ª Biennale di Venezia.

-L’Arte tra utopia e regressione
Siamo alla fine di un altro millennio; è tempo di bilanci e di rilanci, di accuse e di autoaccuse, come è il caso di un noto gallerista milanese, che finalmente si confessa: “Abbiamo voluto che la critica svolgesse un ruolo esclusivamente laudativo ed esaltativo e per questo l’abbiamo costretta ad inventarsi un linguaggio ridicolo, incomprensibile ai più, privo di significato e di didattica. Abbiamo venduto cose strane,alle quali spesso non credevamo nemmeno noi, ma nelle quali dicevamo fingere di credere per timore di passare per deficienti agli occhi di chi stava in estasi davanti al genio dell’artista” L’avanguardia sembra che sia finita, degenerata, ridotta ad una sequenza banale di oggetti di inutile valore culturale, ad una farsa alla grande a livello planetario. In questi ultimi decenni, più che di utopia si parla di regressione, di ripetizione in/differente, dell ‘ignoranza programmata e commercializzata. L’arte si trova in un ghetto? In un recente convegno a San Marino, si è discusso ampiamente su tali problematiche, è emersa una situazione abbastanza precaria, orientata nel solo senso del mercato, sorretta da una giovane critica “a-critica” e con esperienze artistiche “a-problematiche” senza nessun spessore creativo, come li definisce C. G-. Argan. Una situazione in cui ai grandi collezionisti di un tempo, che erano studiosi e anche autentici conoscitori d’arte, si sono sostituiti i nuovi interlocutori, persino ferrovieri, che influenzati e assuefatti a certe riviste d’arte credono che l’arte sia il lavoro discutibile di certi artisti alla moda. Naturalmente, il nostro Giancarlo Politi, editore e critico come lui stesso si definisce,confessa di aver avuto l’ardua responsabilità delle scelte”non occasionali” in questi 25 anni, con le relative virate e cambiamenti di rotta quando ha avvertito che l’arte e il pensiero nell’arte si muovevano verso nuove direzioni. Mi chiedo: Quali direzioni? Sono forse quelle intraprese da Ontani, Salvo, Koons, Delvoye o di certi giovani artisti come: Montesano, Zanichelli, Cattelan, Di Matteo. Mimmo Paladino, da autentico sconosciuto,nel lontano 1966 dichiarava: “Se l’artista non la smetterà di chiamarsi artista, di recludersi in una galleria con tanto di etichetta e di vendere i suoi prodotti a cifre inaccessibili,’e inutile che parli di comunicazione” (Dichiarazione apparsa per la prima volta cu Linea Sud n° 3-4 del Febbraio 1966, e poi pubblicata nel libro “Poiesis” di E.Giannì, nel 1986) Purtroppo, oggi, l’arte da fatto privato e diventata fenomeno di massa, oggetto di investimento e di speculazione. L’artista da emarginato o bohèmien si è trasformato in un artista imprenditore che guarda con un occhio all’opera e con l’altro al portafoglio. Di fronte a questo autentico e inaspettato “terremoto di valori”, alcuni critici hanno intuito la possibilità di gestire e determinare nuove situazioni e soprattutto, diventare parte attiva del processo di trasformazione e di creazione. Così, la critica “creativa” ha cavalcato l’arte in diverse direzioni, attingendo dall’avanguardia storica a piene mani e facendo passare certe trovate per cose nuove. In questo “caos di idee”, Achille Bonito Oliva si chiede: Perchè gli artisti non si suicidano più? Perché hanno capito, finalmente, che in questa “saga della banalità” non è più’indispensabile uccidersi, dal momento che si può morire in modo sicuro per castrazione o per costrizione, per eutanasia creativa o semplicemente per collasso culturale.

-La fortuna di vedere di notteOggi, per un artista contemporaneo vi sono tre direttrici di marcia, la prima direttrice guarda essenzialmente all’indietro in modo nostalgico, recuperando il passato, la tradizione; quasi una sorta di recupero archeologico della storia, che diventa alla fine eclettismo accademico. La seconda direttrice intende vivere intensamente l’attualità del presente, senza nessun contatto né con il passato né con il futuro. Anche questo percorso di marcia non funziona, dal momento che si affida all’immediatezza del momento nel tentativo di definire una visione. L’ultimo percorso -secondo noi - il più interessante, preferisce distanziarsi dall’oggetto fisico e convivere con la riflessione. Di certo, quando la confusione prende il posto della lucidità, tutto si annebbia e diventa indefinito. Soltanto nella riflessione del fare si possono ritrovare le giuste coordinate per una possibile nuova visione. E’ essenziale, quindi, distanziarsi dalla realtà oggettuale rifiutando energicamente l’inespressività della quotidianità, come è successo con la Pop art. Solo “l’inattualità riflessiva” può sintetizzare il passato con il presente per divenire essenza e nuovo modo di pensare. Oggi la confusione è tanta, credendo molti che si possa assemblare oggetti di vario genere, installare o registrare immagini a mò di film per poter fare arte. Dopo le proposte spericolate e distanti di questi ultimi anni, questi nuovi“formalisti”si affidano a soluzioni precarie senza trovare dei contenuti validi per supportare tali proposte. Ormai tutti si credono artisti, ma dove sono le idee capaci di definire una autentica ricerca? Increduli assistiamo a brevi viaggi, che non portano a nessuna destinazione e ovviamente, che si perdono nel nulla. Di tutto questo frenetico e incessante lavorio rimarranno soltanto “i fossili” a documentarci le tristi e inquiete trovate di questi passionari presenzialismi a tutti i costi. Gli oggetti smantellati e “ridotti a frammento” non potranno ridarci l’unitarietà del nostro pensare; anzi saranno gli documenti della nostra incapacità a rigenerare una nuova ipotesi creativa.
-La ripetizione e la trasgressione
La situazione artistica, oggi, risulta difficile e complicata da seguire. Cosa succede? Dopo i profondi mutamenti delle avanguardie storiche che hanno contribuito definitivamente al mutamento della cultura degli ultimi decenni di ricerca, in questi ultimi anni si sta assistendo ad una ondata ripetuta di citazioni senza alcuna autenticità, creata da falsi critici e professorini illuminati, che venduti al consumismo a ai centri di potere, progettano gruppi e mostre senza nessun valore culturale. Ultimamente si osserva un eccessivo proliferare di gruppetti, di artisti, di Gallerie e di riviste, di cataloghi monografici che girano intorno a certe idee tipiche di questo periodo; ritorno all’opera, il fatto a mano, il primitivismo, il nomadismo, l’anacronismo, il post-moderno, insomma, tutta una situazione che nasce da raggruppamenti pianificati e pre-organizzati a tavolino con il solo fine di portare l’arte verso una sorta di grado zero. Queste strategie lucidamente mercantili vengono attuate con il solo fine di rinnovare il mercato e l’interesse del collezionismo. Molti giovani, a scadenze programmate, vengono sacrificati sull’altare dell’arte; ormai sono troppi quelli che si prestano a questo gioco sporco che non ha niente da spartire con l’arte. Inoltre, ad ogni ondata programmata si nota lo scivolamento di molti artisti verso le diverse accezioni del fare artistico, pronti a cambiare pelle e produzione a seconda delle richieste di certi critici alla moda. Luciano Caruso si pone lucidamente il problema confessando: “chissà se col tempo capiranno che sono serviti da truppa d’assalto, in vista di ben altri interessi”. Ne risulta una situazione profondamente confusa senza idee e soprattutto senza un progetto lucidamente perseguito di messa in discussione del mondo. Dopo il riflusso e la situazione chiaramente mercantile, la situazione oggi impone all’artista il riprendere il cammino interrotto e il recupero più alto dell’esperienza precedente, per proseguire verso la trasgressione, rifiutando le leggi del mercato che condizionano l’artista a tal punto da far prediligere la qualità mercantile dell’oggetto che l’energia estetica del vero lavoro artistico. Naturalmente, in questa condizione difficile, l’artista può lavorare individualmente in modo forte, solo se trova dei riferimenti che possano garantire degli stimoli che siano rilevati non da una realtà attuale piuttosto confusa e precaria, bensì da un momento di presa di coscienza veramente autentica. Esiste sempre un dualismo fra un’arte cosiddetta “normale” e un’arte “progressiva”, cioè tra un”arte che opera con i canoni e nei canali stabiliti dalle regole della comunicazione con una conseguente creatività “ripetuta” e un’arte che tenta di rompere con le forme di comunicazione codificate. Il suo destino è quello di porsi in condizione di essere continuamente emarginata ed estraniata dai circuiti economici della comunicazione visiva. Il solo obiettivo lucido che il mercato dimostra di possedere è quello di esaltare costantemente la superficialità produttiva nel tentativo di omologarla nel sistema culturale e soprattutto soffocare la ragione vera e autentica dell’opera d’arte: la creatività.



-La superficie elementare delle coseNello stesso periodo, per strana coincidenza,è stata organizzata a Napoli nella Cappella Santa Barbara del Maschio Angioino un’altra mostra dal titolo “Warhol, Viaggio in Italia”, dedicata al massimo esponente della Pop Art americana. Warhol,rappresenta l’artista straniero più accreditato tra i collezionisti italiani.Vi sono in mostra 250 opere rappresentative dell’intera poetica dell’artista pop, tra cui 100 lavori su tela e 150 opere tra multipli, disegni e fotografie. Si va dalle “Shees” degli anni 50 alle opere degli anni 60, come i ritratti di Marilyn, le scatole di Campbell Soup, i ritratti di Mao, i diversi ritratti degli anni 70 sino ad alcuni lavori eseguiti in Italia, come il ”Vesuvius”, “Fate presto” e “l’Ultima Cena”. Warhol,Viaggio in Italia” costituisce un percorso capace di far rivivere il vero rapporto che l’artista americano ha con l’Italia.Quasi un’attrazione e repulsione nelle stesso tempo. L’Italia, per Warhol è un fenomeno incredibile : una sintesi d i passato e presente in cui si mischiano storia e cronaca ,arte e quotidianità Da “viaggiatore disattento”-come egli stesso dichiara- si interessa, soprattutto,”alla superficie. elementare delle cose“. Leo Castelli, con la Pop Art, nata nel 1962 e imposta al grande pubblico alla Biennale di Venezia del 1964, ha tentato di farci credere che l’America era un’isola felice, senza violenza, senza contraddizioni. Noi siamo sempre più convinti che Castelli si sia messo a servizio del potere americano allo scopo di “narcotizzare” le coscienze ancora libere. Insomma, Leo è stato il “Coast Guard” del potere americano e quindi ha proposto situazioni e idee dove l’atto celebrativo dell’oggetto massificato era l’unico scopo della creazione. Quasi tutti gli artisti della scuderia di Leo Castelli sono stati attratti dalla “superficie elementare delle cose”, una realtà definita con frammenti di neon manifesti, bandiere ad encausto, fumetti ingranditi, oggetti pubblicitari, ritratti serigrafati e persino foto di cronaca. Per capire che tutto ciò è stato un brutto inganno, basta aprire per un attimo gli occhi e guardare in faccia la situazione sociale americana, composta anche da emarginati e da isolati che vivono ai limiti della sussistenza, nella segregazione e nel rifiuto dell’altro.Un paese emblematico, diviso dalla discriminazione razziale; un razzismo che scorre sotto 1a pelle,in modo impalpabile ma tremendamente inquieto.Quale dei due è il vero volto dell’America? La Pop Art ci ha soltanto creato dei falsi bisogni consumistici regalandoci ”oggetti anonimi” e illudendoci di aver trovato il modo per essere felici.

-Cara Milano, non ti conosco più !!!In questi ultimi anni la realtà sociale e culturale di Milano si sta declassando quasi a livelli di sottosviluppo. Dopo il protagonismo di più di trent’anni di interessanti ricerche nell’ambito delle arti visive contemporanee la Milano capitale morale d’Italia, non riuscendo a rigenerarsi esce di scena in modo quasi definitivo. Dal 50 alla fine degli anni 70 l’arte a Milano aveva saputo darci nuove ipotesi di lavoro e di ricerca, come per esempio il Movimento Nucleare di. E. Baj, il gruppo Azimuth di P. Manzoni, l’arte Programmata di Munari, lo Spazialismo di Fontana, fino alle ricerche solitarie di alcuni artisti come Ferroni, Francese e Guerreschi. Alcuni decenni fa, a Milano non c’erano tante gallerie come oggi, non si parlava di programmazione; tutto era spontaneo, vivo. Abitare a Milano significava partecipare intensamente ad una avventura dove l’arte si intrecciava con la boheme di ogni giorno. Bastava percorrere un breve tratto di via Brera, entrare al bar Giamaica per incontrare e discutere con G. Dova, con U. Mulas , Scanavino e persino con Fontana, , tra un caffè e un panino l’arte diveniva programma, manifesto, nuova ipotesi di lavoro. Purtroppo oggi tutto ciò sembra di essere svanito. La città svuotata e senza anima vive un’ esistenza piena di contraddizioni. E. vero, Milano si ritrova oggi con un apparato culturale fatto di tre Fondazioni , più di 150 gallerie private e 10 Istituzioni deputate ad accogliere opere contemporanee , tuttavia, non riesce più a sincronizzarsi con i ritmi delle nuove capitali culturali. Di tante gallerie alla moda, poche riescono a prospettare mostre e percorsi culturali di un certo interesse, molto spesso si hanno soluzioni poco credibili soprattutto per la “cronicizzata mancanza di idee”. Una grande città come Milano non può vivere tutte le stagioni dell’arte, in genere, concluso un ciclo naturale l’arte si trasferisce altrove; gli artisti questo problema. l’hanno capito da un pò e si sono trasferiti in tanti paesetti della Lombardia. A questa “evasione di massa” degli artisti e di tanti”milanesi, la città ha subito l’assedio di migliaia di emigrati dei paesi poveri e del terzo mondo. In questa nuova situazione la città vive la decadenza e l’impotenza, non essendo più in grado di sostenere un decente confronto con i nuovi centri culturali di ricerca. Sicuramente “l’arte non abita più a Milano !”. Per troppi anni Milano, ha dovuto trattenere la propria residenza culturale e per non suicidarsi, in questi ultimi mesi, ha tentato persino di giocare l’ultima carta, basti vedere le ambigue celebrazioni di un epigono del Futurismo lombardo a Palazzo Reale (Cesare Andreoli) e soprattutto la chiacchierata rassegna-omaggio al grande tedesco Joseph Beuys all’Accademia di Brera, mostra contestata ampiamente da Lucio Amelio (amico e collezionista di. Beuys e rappresentante degli interessi della famiglìa Beuys in Italia) e poi finita con uno strascico di azioni legali ancora in corso. Le trenta opere di Beuys esposte a Milano, secondo diversi studiosi, sono opere false o non prodotte dalle mani dello scultore tedesco scomparso 7 anni fa, che non si lascia in pace”neanche all’altro mondo visto che si strumentalizza il suo lavoro a fini biecamente mercantili. In questo “caos” fatto di polemiche, di intrighi commerciali internazionali, di tangenti e di mani pulite, Milano vive in ginocchio, confusa, indifesa e doppiamente tradita.

-Quale identità’Viviamo in una situazione molto difficile dove gli spostamenti, le comunicazioni in tempo reale, la televisione, assieme a tanti altri fattori hanno cancellato l’identità di ognuno di noi. Spesso cambiamo l’identità di ciò che siano a seconda, del contesto in cui ci troviamo, utilizzando gli stessi gesti e lo stesso linguaggio, forse per paura di essere emarginati; abbiamo paura di apparire “diversi” dagli altri e quindi guardiamo l’altro” nel tentativo di essere “l’altro”. In questo confronto vi è il bisogno di ridisegnare i contorni dell’io, l’io e l’altro sono continuamente coinvolti in un processo di definizione e ridefinizione.L’alterità significa confronto tra l’io e l’altro e ci suggerisce somiglianza, differenza e modo di stabilizzare un’identità. Inoltre è anche la capacità di cambiare, di attraversare i confini certi e diventare “altro”.Con l’alterità si creano nuovi confini, ma anche nuovi limiti. L’assimilazione è un’altra struttura dell’alterità, in cui si tende a eliminare la distinzione e la diversità in un processo in base al quale l’alterità dell’altro (o la nostra), viene chiamata ad uniformarsi.Per certi versi,l’uomo contemporaneo perpetua i concetti di assimilazione, di somiglianza e di diversità. Tuttavia, “essere” significa non uniformarsi a nessuno; non desiderare di raggiungere la somiglianza in alcuna cosa che sai fa. L’uomo potrà tentare di superare i suoi limiti e le sue certezze ma, non dovrà perdere la coscienza di sé, del suo “io personale” e la conoscenza e la differenza “dell’altro”. Il giovane artista Sammy Cucher, ha presentato recentemente una serie di lavori alla 46 a Biennale di Venezia, incentrati sulla perdita dell’identità dell’uomo contemporaneo. Precisamente, si è interessato a definire una visione alternativa, un nuovo immaginario narcisista. In una società carica di profondi cambiamenti culturali, sociali e politici, segnata dall’alterità e dai nuovi modi nella costruzione dell’io, i consueti concetti tradizionali vengono ripetutamente smantellati e sostituiti da nuove e provvisorie percezioni e dal nuovo modo di relazionarsi con l’io; non più l’immagine di come siamo, ma come possiamo “diventare” sostituendo all’immagine di se stesso quella riflessa eappetibile dell’”altro”.Cucher, da bravo analista, mette l’uomo a nudo di fronte a se stesso, al suo specchio culturale e sociale, facendo intendere come la tecnologia odierna abbia sconvolto definitivamente in nostro io. Con ciò non vuole rappresentare l’io come registrazione del bello, bensì come possibilità per accedere ad un livello più profondo di conoscenza. Dopo i lavori incentrati sul “Doppio autoritratto”, con l’ultima serie “Distopia” realizzata in collaborazione con Anthony Aziz,l’artista tenta di definire un modello di rappresentazione, molto più espressivo, in cui le fattezze esteriori e gli orifizi degli occhi, del naso e della bocca sono state eliminate digitalmente. Ne vengono fuori esseri profondamente mutati, senza genitali, cioè senza una loro chiara identità sessuale e, che sembrano caricaturare ironicamente la società del futuro; esseri caratterizzati da certi stereotipi della società attuale, imposti attraverso la pubblicità e gli strumenti di persuasione occulta. Il lavoro di Cucher è il promemoria della fragilità psicologica dell’uomo moderno: il ritratto abbandona la similitudine, la ripetività e la somiglianza della copia reale per divenire presa di coscienza e di conoscenza di un’io che non riesce a definirsi e a consolidarsi in forme più stabili. Di certo, queste apparizioni precarie e negate smantellano i luoghi comuni e i modelli certi della pseudo-identità. La dissoluzione della nozione d’identità viene esibita nel tentativo estremo di recupero dell’unità persa, come l’unica condizione possibile per trovare se stesso. L’emozione alla vista di questi lavori è molto forte, nonostante l’evidenza fotografica dell’immagini, dandoci un certo fastidio nel sentirci smarriti e indifesi, forse perché siamo costretti a scrutarci allo specchio del nostro “io impersonale”,che definisce un’identità anonima, sterilizzata,ma perfettamente aderente alla precarietà di come siamo diventati.


-L’ arte di confine: due artisti a confrontoSono sempre più convinto che la tecnoscienza prima o poi ci strangolerà, ingoierà tutto. Sicuramente stiamo distruggendo il pianeta e ci stiamo avviando a sondare un futuro pieno di incognite, per niente tranquillo. Infatti, l’uomo non si rende conto che distruggendo la natura in nome del progresso, del consumiamo e dello spreco programmato, distruggerà anche se stesso. Porse in un futuro prossimo, gli unici abitatori del pianeta terra saranno le formiche e i topi che prenderanno definitivamente il posto dell‘uomo. Il futuro, quindi, sarà una catasta di logori relitti, a meno che venga riscoperto e propugnato uno spirito umanistico con un sentimento morale nei confronti della natura e delle sue straordinarie possibilità. Oggi, purtroppo, la sfida ambientale coincide con la nostra stessa esistenza; siamo in piena situazione “ post-ecologica “.Solo artisti come Ruggero Maggi e Gabriele Jardini hanno il coraggio di porsi tali problemi di vitale importanza, interessati a scandagliare l’essenza “vera” del reale. Sono i nuovi ”primitivi post-industriali che vivono una dimensione tecnologica, che meglio si potrebbe chiamare di “confine”, per la maggiore difficoltà che abbiamo a accostarci alla natura, ormai annullata da una civiltà poco intelligente, che distrugge tutto. Sicuramente nello spazio-tempo della vita di un uomo, la natura è la misura della sua coscienza e della sua sensibilità. Sia R. Maggi che G. Jardini sono coscienti della triste situazione dell’uomo senza futuro; si nota lo sforzo di convivere con la tecnologia (Maggi) o tentare di instaurare un ipotetico dialogo con la natura (Jardini), quasi una rivitalizzazione dei materiali naturali o artificiali , raccolti e riproposti in una dimensione “altra”. Ruggero Maggi lavora sui materiali trovati, che colloca dentro “scatole cinesi” che diventano custodie di memorie urbane, come abbiamo visto recentemente nella mostra personale alla Banca Mercantile Italiana,a Milano. Pierre Restany, presentando il lavoro di R. Maggi, scrive: “Siamo in una società post-industriale dunque in una società che non ha superato di fatto lo stadio industriale, anzi ne è satura, e totalmente satura di industrie. In questa società, è necessario reinventare il rapporto fra l’uomo e la macchina. Ridefinire questo rapporto implica creare le condizioni giuste e vere di un “dialogo. E’ proprio nel cuore di. questo dialogo che si inserisce la ricerca linguistica di R. Maggi. Infatti, l’artista si interroga sulla natura che non può più rappresentare, tutt’al più la ricrea per frammenti di materia naturale e artificiale. Per comprendere gli ultimi lavori, bisogna conoscere l’operazione “museo in casa” del 1980, in cui proponeva la “casa” svuotata da ogni mobile e suppellettile, dichiarando che era uno spazio quasi riabilitato al ruolo di Museo d’arte. Proprio da questa operazione, derivano gli ultimi lavori che accolgono frammenti di realtà, raccolti e conservati “amorevolmente” dentro scrigni, rivitalizzati da un neon di luce industriale o da un laser tecnologico. Maggi, si affida ad una dialettica elementare e primaria che va. a confrontare con la tecnologia e la sofisticazione; accostando il neon ai materiali primari li de-materializza e li concettualizza (l’arco della luna del 1975). L’artista metropolitano, ha bisogno di recuperare i frammenti del reale e di immetterli nel circuito della memoria, così facendo, la scatola diventa il luogo che archivia e conserva i dati raccolti, quasi una dimora della sopravvivenza. Questa immissione di elementi naturali e artificiali, in un rapporto continuo di intensa “interferenza”dove gli elementi naturali (il legno, la pietra, il fossile) convivono con elementi tecnologici (tubi al neon, plexglass, laser), creano uno strano sincronismo emozionale che diventa “cortocircuito” ad alta frequenza. Quello che crea Maggi è un universo privato che viene messo in vista, desideroso di essere conosciuto e che l’artista “generosamente” esibisce. Al tecnologico e urbano Maggi, che incarna la “perdita della natura” si contrappone il nomade Gabriele Jardini, artista solitario che vive a Gerenzano, paese tristemente noto perchè ospita una delle discariche più grandi d’Italia e forse d’Europa. Gabriele Jardini sembra di aver bisogno di uno spazio reale che possa accogliere i materiali “naturali” trovati, che diventano presenze casuali piene di mistero. Jardini, da buon missionario, si dedica ai “cicli precari della natura”, in particolare a operare con performances solitari dentro una natura mortificata, creando situazioni nuove, nel tentativo di rinsaldare un eventuale colloquio. Da autentico ambientalista manipola i materiali rinvenuti nel paesaggio e crea installazioni che si innestano e si integrano dentro la natura che diventa in definitiva l’arena dell’evento. Egli utilizza i materiali più umili: neve, ramoscelli, fiori, pietre, fragole di bosco, per comporre i suoi interventi “volutamente provvisori”. Sembra che il giovane artista varesino, tentando di evocare un senso di meraviglia e di mistero voglia far emergere le forze creatrici della natura. Per rendersi conto di tutto ciò, basta osservare l’opera eseguita alla fine del 1991, in cui ha utilizzato alcuni rami e steli di foglie di robinia che ha immesso dentro la natura, in attesa che la galaverna si depositi sullo strano totem, a fasciarlo, a caricano di energia e forse a proteggerlo. Quelle di Jandini, sono forme che hanno “urgente bisogno” di integrarsi direttamente nel paesaggio, nel tentativo di ristabilire un ordine e un equilibrio perduto. Sono accadimenti magici, che vivono l’attimo fuggente, il momento immediato. Lo scopo essenziale di Jardini è di “ricaricare” la natura, rivitalizzarla, farla pulsare di energia. Uno strano senso di stupore affiora negli ultimi lavori pieni di fascino e di meraviglia, che l’occhio avido della macchina fotografica registra. Un misterioso “apparire” che si scioglie nel fantastico e vive con il suo non essere.


-Come sarà l’arte del prossimo futuro?
Siamo all'inizio del terzo millennio, viviamo una situazione precaria dove l’incertezza regna sovrana. L’arte sarà in grado di essere testimonianza pregnante dell’uomo o continuerà a rispecchiare la visione limitata e confusa che si ha del mondo? Sarà una visione “caramellosa” incapace di rivelarsi proprio per eccesso di comunicazione?. Rispondere a questa domanda appare quando mai difficile. L’avanguardia storica ha cercato che il pubblico accettasse le nuove forme artistiche. Ormai la società attuale richiede espressamente la novità, i cambiamenti di stagione, che vengono consumati in dosi sempre più massicce. Quale sarà il futuro dell’arte nel prossimo terzo millennio? Di certo, non abbiamo le visioni e neanche il dono delle previsioni, tuttavia, l’impressione condivisa da più parti che siamo arrivati al capolinea; che tutto sia stato detto e visto. In questi ultimi decenni c’è stato forse qualche artista che ha allargato l’orizzonte del nostro sguardo? Con la fine delle utopie che coincide con la fine del 2° millennio, non sappiamo se saremo in grado di elaborare una visione lucida e adeguata alla complessità della nostra società o continueremo a morderci la coda lanciando continuamente lo sguardo all’indietro nel tentativo di ripescare situazioni e esperienze da riproporre. Ci chiediamo: quale arte può sorgere da una società anestetizzata che non crede ad altro valore che quello nichilista del nostro presente? Dopo le scolabottìglie e gli orinatoi di Marcel Duchamp, tanti attardati rinnovatori sono gingillati in proposte spesso ironiche ma molto discutibili,come Andy Warhol che ha pubblicizzato le minestre Campbel o la cocacola in tutte le salse; Piero Manzoni con le trovate organiche e feticiste delle scatolette di “merda d’artista”, Cesar Baldaccini con i rottami delle carcasse di automobili pressate, Jeef Koons che si è appropriato di oggetti spudoratamente kitsch per i suoi interventi ludici, fino e ultime proposte di tanti giovani artisti che incentrano il proprio lavoro di ricerca sulla base del “dejà vu”. Non c’è stato, credo, nella seconda metà di questo secolo nessun movimento nell’arte che abbia modificato il nostro sguardo. Non possiamo stabilire a priori quale sarà l’oggetto della disciplina nel prossimo futuro. Dobbiamo attendere il diktat degli artisti per capire, attraverso le nuove ipotesi, quali nuovi atteggiamenti si prospettano.Attualmente possiamo solo indicare ciò che non ci piace, prevedendo che da questa insoddisfazione possa nascere un possibile mutamento.L’importante è che ogni ricerca futura non si esaurisca dentro i confini angusti della ripetizione. L’avanguardia storica ha saputo conquistare il pubblico ma ha lasciato in sospeso la richiesta morale di trasformare la società. In ogni caso speriamo che rinasca l’interesse all’utopia, ovvero il desiderio di correggere il corso consueto degli eventi. Per il resto staremo a vedere.

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