GUGLIELMO ACHILLE CAVELLINI
L’arte tra ironia,
utopia e vita
“Caro Guglielmo Achille
Cavellini, noi tutti abbiamo all’inizio dedicato la nostra fede (il nostro
entusiasmo giovanile) a degli schemi che si sono rivelati ingenui. Abbiamo
creduto innocentemente che la capacità producesse il merito e che dal merito
venisse la gloria. Abbiamo scoperto via via nel tempo che ciò non accade.
Abbiamo imparato che, nei rapporti sociali, è la gloria che crea il merito e la
capacità. Ed ecco che ora scopriamo che questo concetto di capacità è scomparso
divenendo un’idea ingannevole che i divulgatori introducono a loro piacimento.
Ridiamo ora attraverso di lei dei nostri sbagli precedenti. Ridiamo del merito
e della gloria. Ridiamo del pubblico e della società, ridiamo delle loro
beffarde mitologie. Questo è il messaggio che sgorga dalla sua sferzante
e singolare attività. La saluto e la elogio. Vivissimi auguri”.
(Da
una lettera di Jean Dubuffet a Guglielmo
Achille Cavellini, del 15-10-1978)
GAC acronimo di (Guglielmo Achille
Cavellini), nasce l'11 settembre del 1914 e
muore a 74 anni il 23 ottobre del 1990. E’ stato esattamente nel
1971 che ha inventato
“l’autostoricizzazione”, siglando ironicamente ogni opera con la data
del centenario dell'autore e inviando
per via postale in tutto il mondo una decina di “mostre a domicilio”. In
Italia, per diversi decenni, GAC è stato osteggiato come “un
ricco eccentrico in vena di esibizionismo”, non compreso perché ritenuto
soltanto un importante collezionista
d’arte contemporanea e di
conseguenza collocato dalla critica
ufficiale nel completo isolamento. A partire dal 1971, dopo l’irruzione nel mondo dell’arte
dell’americano Ray Johnson, vissuto nello stesso periodo dell’artista bresciano,
G. A. Cavellini incomincia
a ribellarsi ai poteri forti attuando
l'autopromozione e l'autocelebrazione di sé attraverso la
diffusione di interventi di vario tipo cercando
opportunamente di ridicolizzare certe logiche sottese al mercato dell'arte. GAC
riteneva il sistema ufficiale dell’arte impenetrabile e corrotto, di
conseguenza la decisione di proporre la sua stessa presenza come autentico
momento creativo. Insomma, una sorta di artista isolato che dal chiuso decide finalmente di non far parte
più di quella schiera di pittori delusi
e incompresi come Munch, Van Gogh, Modigliani o Tancredi e di far
sentire la propria voce attuando appropriate “interferenze” all’interno del sistema monopolistico dell’arte. Dopo aver
realizzato, distrutto e riciclato una parte consistente del suo lavoro degli
anni precedenti, GAC decide di compiere “il grande passo”, ossia di
contrapporsi ad un sistema ormai sordo e monotono, un ulteriore sviluppo verso
la messa in crisi del tradizionale sistema ufficiale dell’arte.
E’
proprio GAC per primo a porre in modo
evidente il problema della
mercificazione e del condizionamento da parte del potere culturale attuando per reazione
un straordinario “attivismo
di contrasto frontale” con il sistema
impenetrabile dell’arte ufficiale. L’arte, dopo essere stata
relegata per molto tempo al chiuso delle
idee, con l’attuazione
dell’autostoricizzazione” diveniva liberazione, apertura delle frontiere
culturali che si integrava nella vita.
Cavellini si ritrova a condividere
contemporaneamente vari campi d’esperienza trasversali e alternativi alle
proposte della cultura ufficiale; dalla
pittura alla poesia visiva, dalla body art alla performance, collocandosi
apertamente ai margini di un sistema, in una zona franca, ovvero “in una
periferia di confine praticabile” abbracciando
concretamente una pratica che di fatto assorbiva diverse esperienze convogliandole in
nuove possibilità creative. Inoltre, con
la preferenza e l’utilizzo della Mail Art
poteva finalmente confrontarsi a 360 gradi con artisti di diversa esperienza e latitudine
sparsi in tutto il mondo. Una pratica,
quindi, “di lucido confronto” che poteva fare
a meno del mercato dell’arte. Dal 70 in poi, Cavellini partecipa attivamente
alla messa in crisi del sistema “come battitore libero“ condividendo in modo trasversale e parallelo più campi di
ricerca e smantellando così un concetto tradizionale che preferiva la produzione dell’artista ripetitiva e ben identificabile,
una produzione piuttosto “riconoscibile”
al completo servizio del mercato
dell’arte. Oggi, GAC ci sembra davvero la figura più convincente, molto più di
Ray Johnson che, secondo noi, non è riuscito a far udire in tempo utile la propria voce, relegandosi
supinamente ai margini di un sistema autoritario e subendo di conseguenza il
silenzio e l’anonimato come triste marchio d’infamia che il sistema dell’arte
attribuisce a chi non reputa utile alla
causa speculativa del mercato ufficiale
dell’arte. Grosso modo è’ risaputo il triste epigono del “più famoso artista sconosciuto di New York”,
il 13 gennaio 1995, a Sag Harbor, lasciandosi annegare, (si dice)
nell’acqua torbida e gelida del Long Island. In
quella particolare situazione vi fu molta speculazione anche da parte dei critici, studiosi e funzionari
delle forze dell'ordine che
considerarono il triste evento persino come
"ultima performance"
dell’artista americano.
Dopo la Pop Art tutto poteva
diventare merce di consumo e
l’artista trasformarsi in un’icona da
incensare e venerare. Inoltre, con le proposte
dadaiste ogni oggetto poteva essere considerato “artistico” e quindi presentato
come opera d’arte; bastava “deprivarlo” dalla reale funzione pratica, immetterlo in una galleria d’arte certificando così un suo possibile valore artistico. Negli anni ’60,
anche Piero Manzoni aveva cercato
di sovvertire un ordine prestabilito attuando interventi di
tipo “utopico” che di fatto sconvolgevano
il sistema ufficiale dell'arte che si
regolava sul tacito patto consensuale tra coloro che gestiscono le ipotesi e i flussi di opere d’arte da immettere in circolazione
all’interno del mercato dell’arte. L’artista
di Soncino con i suoi interventi non più estetici ma artistici che rifiutando
la normalità certificava questo passaggio
cruciale d’epoca. Tutto ciò
l’aveva compreso anche Cavellini che a partire dalla seconda parte degli
anni ’60 il poi inizia a utilizzare nelle sue opere materiale di scarto
d’impronta dadaista; soldatini, giocattoli, piume, foglie secche, lamette da
barba, uniti ad altri materiali trovati vanno
a configurarsi come una sorta di
teatrino carico di memorie e di ironie
sottese. Pratiche, si dirà
apparentemente distanti rispetto alle proposte ufficiali, in verità
perfettamente in linea con le problematiche e le ricerche prospettate negli anni 60, 70 e 80 dal sistema ufficiale e internazionale
dell’arte. Insomma, stesse problematiche
comuni d’indagine ma diverso modo di procedere. A nostro avviso, Gac risulta un artista
decisamente non etichettabile in
una specifica scuola o gruppo artistico, proprio perché si offre nel contempo come citazionista, poeta visivo, performer,
body artist, mail artist e persino
street artist e creatore di artistamp, quindi, difficilmente classificabile per
le diverse pratiche utilizzate ma sicuramente artista del superamento
trasversale di una logica tutta tradizionale.
Dal 1973 in poi, come conseguenza diretta dell’autostoricizzazione, Gac riscopre anche la scrittura come segno, scrive
e riscrive a ripetizione la propria storia dappertutto. Inventa la “Pagina dell’Enciclopedia” partendo da dati biografici reali,
estende la propria storia ad appropriazioni temporali iperboliche e
parossistiche del pensiero umano con uno
sguardo obliquo e intenso rivolto al passato
e anche al presente. La breve
biografia si tramuta così in scrittura che l’autore applica a tutto: dalle
stoffe e gli oggetti ai vestiti e persino i modelli viventi divengono il
supporto diretto di questa invasione e occupazione “pittorica” con un fare
improntato alla performance. A tal
proposito è da segnalare negli anni ’80 una serie di festivals in onore di Cavellini organizzati per prima in California tra San Francisco, Los Angeles e Hollywood e in seguito a Middelburg, in Olanda, in Belgio nel
1984 e persino in Ungheria a Budapest, in cui l’azione
performativa e all’happening collettivo viene sperimentato in modo amplificato e
convincente. Negli “Appunti
a margine nella ‘Vita di un genio’”, Piero
Cavellini scrive: “la sua
scrittura prolifera e si dirige verso gli oggetti più svariati come fogli di
plexiglass e bandiere che ricopre minuziosamente ed in diverse lingue fino a
giocare con sovrapposizioni illeggibili. Ricopre della propria scrittura
anche una serie di colonne, simbolo di prestigio ed onore; passa quindi agli
oggetti personali più disparati, dalle valigie all’ombrello, ad un set completo
di abiti, magliette e quant’altro. Prende in seguito a vestirsi con questi
indumenti dando luogo a performance di vario tipo nelle quali appare ricoperto
della propria storia. Scrive sul mappamondo, su due candidi manichini, per
passare poi a personaggi viventi.”
Le sue azioni sono state decisamente
in anticipo anche rispetto alle
proposte graffitiste attuate dal giovane americano Keith Haring negli anni ’80, accumunati occasionalmente dall’amore
per la scrittura.
Dopo la morte di GAC ha iniziato, lentamente, il processo di far “ri/conoscere” ad un pubblico più ampio
e all'interno della comunità critica del
sistema ufficiale dell’arte le qualità e gli apporti innovativi dell’artista
bresciano. Oggi, Cavellini è da considerare
come uno dei maggiori e originali innovatori della seconda metà del 20° secolo,
dopo qualche decennio di attesa e di
riflessione, ci appare
come la risposta italiana alle proposte di Ray Johnson, ovvero, l’altra faccia della Pop art americana, quella che s’incarna
all’interno della storia dell’arte del passato dell’arte italiana e del presente. Ha
vissuto l'arte contemporanea dal secondo dopoguerra fino al 1990, intensamente
come artista libero, diceva: “preferisco vivere la mia avventura, proiettata
nel futuro, piuttosto di dovermi impantanare nell’intricata giungla
dell’arte”, da artista non condizionato da schemi e imposizioni.
Quindi, non é stata una questione di semplice eleganza o stile ma di una cosciente operazione
illuminata che ha evidenziato e messo in
luce i problemi e le contraddizioni di
un sistema culturale “corrotto”
che non permette alcuna interferenza e che costringe l’arte e gli artisti
all’isolamento e all’anonimato. Un sistema che non lascia nulla al caso e
che tratta l’opera d’arte e l’artista come semplice merce di scambio. (Giovanni
Bonanno)