martedì 28 febbraio 2012

 
 
MARCELLO    DIOTALLEVI

SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY

Via S. Calenda, 105 - Salerno


MOSTRA RETROSPETTIVA

“PAROLE AL VENTO”

3 marzo – 30 giugno 2012

Inaugurazione: Sabato 3 marzo 2012, ore 18.00



Ophen Virtual Art Gallery, Via S. Calenda, 105 – Salerno Tel/Fax 089 5648159

e-mail: bongiani@alice.it – Web Gallery: http://www.ophenvirtualart.it/

Orario galleria: tutti i giorni dalle 17.00 alle 20.30







“Parole al Vento” é il titolo della mostra retrospettiva che lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery di Salerno dedica a Marcello Diotallevi, uno dei più interessanti Mail artisti italiani che per questa mostra presenta 91 opere tra “Fiabe al vento, Poemi dell’elica, Lettere da Citera, Lettere al mittente, Lettere autografe e francobolli d’artista, realizzate tra il 1980 e il 2011.



S’inaugura sabato 3 marzo, alle ore 18.00, la mostra retrospettiva dell’artista Marcello Diotallevi a cura di Sandro Bongiani. L’esposizione, accompagnata da un poema visivo di Giovanni Bonanno e da testi critici di Sandro Bongiani, Enzo Di Grazia e Suzel Berneron, presenta novantuno opere che ripercorrono oltre quarant’anni di ricerca, dagli esordi figurativi dei primi anni ’80, fino alle ultime proposte del 2011.



Marcello Diotallevi, classe 1942, sul finire degli anni Settanta ha iniziato le sue irruzioni nell’area della Mail Art con contatti sempre più intensi con la Poesia Visiva, utilizzando le lettere dell'alfabeto per accumuli, disseminazioni liberati da qualsiasi senso e significato letterale, e in questi ultimi anni, anche del recupero del colore e dell’uso gioioso della pittura. Artista di singolari voli a cielo aperto di “parole al vento”, di lettere senza destinatario che ritornano al mittente; lettere in cui l’accumulazione grafica di simboli di tipo grafico creano nuove associazioni sempre imprevedibili e nuove, disarticolando il linguaggio e riducendolo a pezzi. Ora con gli ultimi lavori Le parole incantate volano allegre nello spazio come dolci fiabe senza tempo. Ne viene fuori una sorta di viaggio poetico dentro la fantasia e l’incanto, con la definizione di presenze che cercano di esercitarsi al volo, a condividere l’indefinito. Cervi volanti e ippogrifi cavalcano raggianti il tempo di un solo momento, apparizioni che si formano e nello stesso tempo si stravolgono per definirsi, poi, in poemi colorati destinati al vento. Lettere dal destino vago e ingrato volano come francobolli in attesa che qualche possibile destinatario possa decifrare gli oscuri incanti della parola, si aggrappano avidamente all’immaginazione e si lasciano andare al flusso delle correnti, coscienti di non poter essere più significato compiuto ma sola presenza e indizio sfuggente.




Marcello Diotallevi

SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY

Via S. Calenda, 105 - Salerno

3 marzo – 30 giugno 2012

Inaugurazione: sabato 3 marzo 2012, ore 18.00

Orario: tutti i giorni ore 17.00 - 20.30









DA SABATO 3 MARZO A SABATO 30 GIUGNO 2012




PAROLE AL VENTO

Poema visivo di Giovanni Bonanno dedicato a Marcello Diotallevi





A

Fano,

a un passo

dal mare,

aquiloni stretti

ad un filo e appesi

per la coda volano leggiadri

sospinti da arie fugaci.

lettere e caratteri tipografici,

si formano e si trasformano in

anagrammi gentili che solo pochi sanno carpire.

Parole di fiabe solitarie destinate al vento si rincorrono e si

arrampicano orgogliosi per la collina per poi lasciarsi

andare all’ombra del buio di una notte stellata,

Sospinti dall’ebbrezza del mare, formano strane scie

di seta vellutata dai colori intensi e delicati.

Sotto il portico di Citera, l’ora dell’oblio segna

il passo con Giove che raccoglie le ceneri

di un amplesso regalando all’amata Danae

sospiri, pagliuzze d’oro e dolci lettere cortesi.

Tra un bacio rubato e una parola galante,

lettere al mittente

dal destino ingrato,

francobolli

e Cervi

volanti

nati

per caso,

vagano

curiosi

in

c

e

r

c

a

d

i

t

e

© Giovanni Bonanno











“DALLA LETTERA AL VOLO”   di  Sandro  Bongiani

Marcello Diotallevi, classe 1942, sul finire degli anni Settanta ha iniziato le sue irruzioni nell’area della Mail Art e con contatti sempre più intensi con la Poesia Visiva, utilizzando le lettere dell'alfabeto per accumuli, disseminazioni liberati da qualsiasi senso e significato letterale, e in questi ultimi anni, anche del recupero del colore e dell’uso gioioso della pittura. Artista di voli a cielo aperto di “parole al vento”, di insolite lettere senza destinatario che ritornano al mittente; lettere in cui l’accumulazione grafica di simboli di tipo grafico creano nuove associazioni sempre imprevedibili e nuove, disarticolando il linguaggio e riducendolo a pezzi. Ora con gli ultimi lavori Le parole incantate volano allegre nello spazio come dolci fiabe senza tempo. L’intera produzione dell’artista di Fano nasce dall’ibridazione dei linguaggi fino a sconfinare con convincente disinvoltura nella poesia visiva. Di questi ludici interventi provocatori ne è responsabile Marcel Duchamp artista amato da Marcello per la componente estetica e concettuale. Ne viene fuori una sorta di viaggio poetico dentro la fantasia e l’incanto, con la definizione di presenze che cercano di esercitarsi al volo, a condividere l’indefinito. Cervi volanti e ippogrifi cavalcano raggianti il tempo di un momento, apparizioni che si formano e nello stesso tempo si stravolgono per definirsi in poemi colorati destinati al vento. Alla base vi è l’ironia come sistema per indagare il presente con il fine di evidenziare gli aspetti più particolari, lasciando alla casualità provvisoria la possibilità di destare stupore e meraviglia. Tutta l’intera ricerca di Diotallevi è improntata da questo particolare modo di fare. Come per esempio le «Lettere autografiche» di un tempo sistemate sui fogli bianchi imbustati che spediva per posta a destinatari inesistenti creando così lo smarrimento e la trasgressione. Si badi bene non la ricerca della casualità “tout court”, fine a se stessa, ma come sollecitazione e possibilità di accamparsi nel provvisorio e nell’evento non programmato e definito. Così è stato anche per i racconti fantastici e immaginari delle “Fiabe al vento” di questi ultimi tempi, quasi dei collage composti da frammenti assemblati di ripstop di vari colori. La loro forma suggerisce strani aquiloni rampanti che volano nell’aria in attesa di stabilizzarsi in una dimensione più certa. Per sedimentarsi cercano l’infinito, l’immateriale e il mistero come essenza. La loro sagoma colorata evidenzia lettere ritagliate, svuotate di peso, che si stabilizzano all’interno della superficie colorata. Lettere dal destino vago e ingrato volano come francobolli in attesa che qualche possibile destinatario possa decifrare gli oscuri presagi della parola, si aggrappano avidamente all’immaginazione e si lasciano andare al flusso delle correnti, coscienti di non poter essere più significato compiuto ma sola presenza sfuggente.            









Biografia
Marcello Diotallevi è nato nel 1942 a Fano. E' vissuto per lungo tempo a Roma dove per un decennio ha esercitato l'attività di restauratore presso il Laboratorio di Restauro in Vaticano. Ha inizio in quegli anni anche la sua attività artistica all'insegna dell'irrequietezza. Come pittore prima, poi come scultore nei primi anni Settanta, quindi per qualche tempo si occupa di grafica e infine inizia a scrivere. Sul finire degli anni Settanta hanno inizio le sue incursioni nell'area della Mail Art e della Poesia Visiva di cui è tuttora un impegnato protagonista. In oltre un quarto di secolo di attività artistica ha collaborato con suoi interventi a libri e riviste nazionali e internazionali. Nel corso del tempo ha tenuto varie mostre personali nelle maggiori città italiane, partecipando nel contempo a esposizione collettive in tutto il mondo. Fa parte del gruppo di intervento artistico "I metanetworker in spirit". Si occupa in prevalenza di installazione, Poesia Visiva e Mail Art. E' l'autore della copertina della Guida al Musée National d'Art Moderne - Centre Georges Pompidou di Parigi (Hazan Editeur 1983). Nel 2003 riceve l'invito a tenere una performance nella Sezione "Extra 50" della 50esima Edizione Internazionale d'Arte - Biennale di Venezia ma, non essendo egli un performer, declina l'invito. Nel 2007 è stato invitato alla 52esima Biennale di Venezia e poi nel 2011 alla 54 Biennale di Venezia, Padiglione Tibet, a cura di Ruggero Maggi. Dal 1974 vive e lavora a Fano.

– Marcello Diotallevi – studio via Veneto, 59 – 61032 Fano – Italia

VISITA/ Sito di riferimento: http://www.caldarelli.it/diotallevi.htm







MARCELLO DIOTALLEVI / Intervista


…….grafico, pittore, scultore, mailartista, poeta, ‘aforista’… Qual è il tuo vero ‘mestiere’?

Non so se le attività che tu hai elencato possano essere qualificate come mestieri, professioni o vocazioni. Di tutte, quella di “aforista” è - per chi mi conosce - la più calzante. L’aforisma verbale mi seduce, ma ancor più quello visivo. Con ciò non intendo sminuire gli altri esercizi creativi che hanno caratterizzato e arricchito la mia vita nel corso degli anni. Tutto ha concorso a fare di me ciò che ora non sono…



Cos’è per te l’opera d’arte?

Qualcosa che viene da molto lontano, da luoghi reconditi della mente e giunge a noi artisti per vie sconosciute, ma l’impulso creativo può essere anche un semplice fatto gestuale che talvolta non supera la misura del braccio. È la più alta espressione dell’ingegno umano. O… dell’inganno umano? Giova ricordare che in greco technìtes designa sì l’artista e l’artigiano, ma anche l’imbroglione.



Da quale contesto proviene la tua ludica e poetica ‘pro-vocazione’?

Marcel Duchamp è il maggior responsabile della mia ricerca artistica: una sorta di padre adottivo involontario dal quale ho appreso, da figlio eretico, alcune lezioni. Per prima, quella estetica; e più cospicuamente, quella concettuale; infine quella morale, che ritengo la più importante.



Dalla parola all’oggetto. Sei per l’affermazione o il superamento della ‘materia’?

Mai come in questo momento la ricerca artistica converge verso una smaterializzazione dell’opera. Basti pensare alle ultime Biennali di Venezia, di San Paolo e a Documenta di Kassel. Il virtuale tira, ma ciò non vuol dire che l’arte oggettuale, che fa uso della materia, sia in crisi e il suo tramonto vicino. In questo decennio, in compagnia di qualche collega, anch’io ho condotto alcune esperienze video. Per la verità, un po’ poco per uno che decide di cambiare pelle…



Dalla poesia visiva ai dipinti, alle opere tridimensionali e installative. Con quali lavori ti identifichi maggiormente?

Per molti anni ho lavorato in Vaticano, nel Laboratorio del mosaico. Da allora il feeling verso quella tecnica non è mai venuto meno e talvolta amo tornare “sul luogo del delitto”.



Perché fai da te…?

Io non ho mai creduto al vecchio adagio “chi fa da sé, fa per tre”. L’ostinazione non paga e l’opera sicuramente ne patisce. Ma un conto è avere dei collaboratori – spesso indispensabili – altro è lasciar fare tutto a loro.



Sei portato a privilegiare l’estetica o il significato?

Nel mio lavoro non è possibile separare significante e significato, se il risultato finale deve essere un’opera compiuta.



Dall’immagine mentale a quella sessuale. Qual è più stimolante?

Di tutti gli dèi, Eros è certamente il più vicino agli uomini. È sempre lui che governa gli umani desideri, sia dai piani superiori, sia dai piani inferiori – teoria e prassi. La vita – o gli dèi – hanno deciso che io facessi l’artista, ma se le cose fossero andate diversamente, avrei fatto il maniaco sessuale.



Ma nella tua attività che ruolo riveste la sensualità?

Zodiacalmente parlando, sono un Toro, quindi è pleonastico dire che la sensualità si riversa inevitabilmente nella mia attività artistica. Però la ragione non la perde mai del tutto di vista.



È ancora il caso… di praticare la Mail Art mentre imperversa la posta elettronica?

I mailartisti sono piuttosto ostinati e penso che frequenteranno questa tendenza sine die. Bisogna dire che molti di loro conducono anche una ricerca personale, come nel mio caso. La posta elettronica ci permette di tenere a distanza le seduzioni esercitate dalle Sirene della modernità.Io non uso il computerper due motivi:l’assenza dell’oggetto manipolato dall’artista e l’impossibilità di modificare l’opera durante il percorso mittente-destinatario.



Nel tempo torni anche sui cicli precedenti?

Fino a oggi non mi è mai accaduto, sebbene consideri aperti alcuni cicli. Altra cosa è completare un’opera che non appartiene ad alcun ciclo, iniziata molti anni prima e messa da parte in attesa di migliori auspici. Giusto da qualche mese, ho concluso un lavoro cominciato vent’anni fa.



Cosa ti sollecita a spaziare in senso orizzontale e verticale?

L’essenza di ogni ricerca, e quella artistica non fa eccezione, è, fuor di dubbio, la curiosità abbinata alla passione. Spinte, queste, che mantengono giovani anche in tarda età e che mi auguro di non perdere mai.



Vai costantemente alla ricerca di un altrove?

Io nell’altrove, solitamente, ci vivo.



Meglio la precarietà o la stabilità?

Se ti riferisci alla vita, direi che in medio stat virtus; se invecealludi al gesto creativo, il discorso cambia, perché la storia dell’arte ci insegna che la precarietà o la stabilità hanno scarsa incidenza sulla qualità dell’opera e sul successo o l’insuccesso di un artista



È possibile realizzare… la fiaba?

Io l’ho fatto ripetutamente con le mie “Fiabe al vento”.



È lecito de-mitizzare attraverso il quotidiano?

Non solo non è lecito, ma non lo ritengo possibile. Il quotidiano spesso è di basso profilo e non possiede la forza sufficiente a demitizzare (al massimo, a derattizzare…). Il Mito, per fortuna, è più potente anche della Storia; figuriamoci del quotidiano! Io ho realizzato l’operazione inversa: attraverso il mito ho de-quotidianizzato.



Oggi sono più forti le suggestioni reali o intellettuali?

Non saprei. Anche se può apparire provocatorio, il problema riguarda la transustanziazione. Secondo te, si tratta di una suggestione reale o intellettuale? Rispondere a una domanda con una domanda mi pare la maniera migliore di concludere questa conversazione a distanza. Luciano Marucci



[«Juliet» (Trieste), n. 115, dicembre 2003-gennaio 2004, p. 47]







Marcello Diotallevi: lettere autografiche

Nel mondo vario e coloratissimo della mail-art, due ipotesi mi sembrano particolarmente interessanti e ricche di prospettive. Per quello che riguarda le iniziative collettive, il merito maggiore va certamente attribuito a quelle che, privilegiando un tema squisitamente politico, configurano la collezione delle risposte pervenute ad un quesito proposto come un autentico «manifesto degli artisti» che, in assoluta libertà di pensiero e di linguaggio, si esprimono su questioni particolarmente attuali e sentite. Per quello che invece riguarda le operazioni individuali, l’attività di maggiore qualità è quella che si fonda sull’ironia come sistema (ma anche sul sarcasmo feroce, se necessario) per scavare nel quotidiano e farne emergere gli aspetti esasperati. L’ascendente, logico più che storico, è nel Dadaismo, per quella sua capacità di ironizzare su tutto, anche su se stesso; ma al gusto nichilista del Dada si aggiunge anche, nei migliori mail artisti, il senso positivo del riutilizzo in chiave estetica degli stessi sistemi contestati. In questa direzione, il lavoro svolto da Diotallevi sul sistema postale italiano e internazionale mi sembra quanto di più corretto, scientificamente, e qualificato, sul piano della creatività, si potesse ottenere. Il riferimento al Dadaismo si limita (è bene ripeterlo) al gusto ironico che sorregge l’iniziativa, in una sorta di ambiguo atteggiamento che porta a scherzare su un elemento ormai acquisito come proprio, in maniera addirittura inalienabile, della nostra quotidianità. E, più ancora, si legge l’ascendente dada in quella volontà chiara di non creare opere concluse ma di lasciare alla casualità un largo margine di intervento. Mai, però, con lo scopo di «destare la meraviglia»: va respinto categoricamente questo tipo di lettura (limitativo e forse addirittura offensivo sia per l’operatore che per il pubblico), che poteva nascere so lo dalla logica perversa di chi, negli ultimi anni, si è alimentato di «arte che desta la meraviglia ad ogni costo» e quella difende fino alle degenerazioni più becere. Piuttosto, invece, per proporre, in una individuale grafia pittorica, una riflessione sul mondo esterno che, personale nella intenzione iniziale, si fa poi collettiva quando ciascuno di noi si può riconoscere alienato in un «destinatario in basso a destra» all’interno dei limiti del bustometro con obbligo del Cap, indipendentemente dai contenuti del messaggio che tocca quasi sempre la nostra personale intimità. Specialmente nelle «Lettere autografiche» Diotallevi raggiunge un fondamentale e delicato equilibrio tra la sua natura di pittore e le molteplici valenze di contenuti che l’operazione possiede. Il momento personale, artistico, è quello della sistemazione, sui fogli bianchi imbustati, di piccoli frammenti di carta carbone colorata, sensibile alle minime pressioni: la scelta dei colori è parallela a quella della tavolozza di qualsiasi pittore; la disposizione sul foglio segue una precisa idea compositiva, che deve, peraltro, tenere conto degli interventi meccanici esterni. Anche la scelta del meccanismo postale da utilizzare (spedizione a destinatari inesistenti per creare la trasgressione e la dislocazione) esclude qualsiasi ipotesi di casualità. Quando, però, il lavoro esce dalle mani dell’artista e si affida al servizio postale, il caso entra nel meccanismo dal momento stesso in cui l’affrancatura viene timbrata per l’annullo con effetti solo parzialmente prevedibili, sul foglio interno; e continua poi attraverso tutto il viaggio di andata e di ritorno in una «storia» che spesso rasenta l’avventuroso. Un’operazione così impostata, organizzata e svolta fino alle ultime conseguenze si apre a molte chiavi di lettura e presenta molte implicazioni con elementi che tirano da una parte (verso gli aspetti formali, ad esempio, attraverso il cromatismo e la composizione) ed altri che sembrano muoversi in direzione opposta (come l’impianto di derivazione concettualistica dei meccanismi di svolgimento). Ma forse, è proprio in questo la vera forza dell’operazione: essere, fino in fondo, mail-art. Enzo Di Grazia







Fiabe al vento di Suzel Berneron

Marcello Diotallevi è, decisamente, un "uomo di lettere"; anzi, un "uomo di lettere" assai prolisso. Lo testimonia il suo percorso artistico che, prendendo le mosse dal movimento Dada sulle tracce di Kurt Schwitters, di Christian Morgenstern e di Duchamp (che ammira particolarmente), senza rinnegare del tutto il futurismo, sfiora al volo l'Op'Art e la Pop Art, per raggiungere Fluxus e i Nuovi Realisti teorizzati dal suo amico Pierre Restany e per passare, restandovi a lungo, per la Mail Art. Il comune denominatore di questa ricerca sono appunto, le lettere. Lettere che si mandano o lettere che si tracciano, Marcello Diotallevi ne ha prodotte un'infinità, da Praxi o Tremens (1978), da Ritratti a macchina (1984) a Senza titolo del 1989, alle operazioni Lettere al mittente e Lettere autografiche, fino alle Fiabe al vento di oggi. E se Marcello fosse uno scrittore represso? E' già l'autore di numerosi "libri", monografie o raccolte di Visual Poetry, come Seven pistol shoots (1981) e Zoom (1990), e tutto induce a pensare che non si fermerà lì. Fiaba, favola, fanfaluca... niente significa così tanto una cosa e il suo contrario; racconto fantastico, racconto didattico o menzognero, immaginario o tristemente vero... La fiaba non smette mai di interrogarci: porterà il vento a qualche misterioso destinatario il messaggio affidatogli, oppure "parlare al vento" vuoi proprio dire "parlare al muro"? Molto vicine infatti alla dialettica già sollevata nel 1987 con l'operazione "politecnica" delle Bugie, che già giocava sull'ambiguità della parola -candeliere o menzogna-, ossia già in parte sulla dicotomia didattico/menzognero, queste Fiabe al vento e i Poemi al vento a loro di poco anteriori, si inseriscono cronologicamente nella linea diretta che deriva dai Progetti di volo, già stesi su carta a cominciare dai primi anni ottanta, i primi sintomi, come scrive Marcello, del suo essere stato contaminato dal virus dell'aquilone, ampiamente nutrito dalla cordiale intesa con l'AIA (Associazione Italiana Aquilonisti). Assumendo l'aspetto di aquiloni "svertebrati", queste Fiabe al vento, composte di pezzi di vari colori assemblati come in un puzzle, sono realizzate invece in un tessuto, il ripstop, usato negli spinnaker delle barche a vela. La loro sagoma evoca a volte l'insetto, il razzo, gli astri. "Queste opere sono costruite con linee, superfici, forme e colori; cercano di raggiungere l'infinito e l'eterno, oltre i limiti umani. Sono un rinnegamento dell'egotismo degli uomini" scriveva Hans Arp. La spiegazione che dava delle proprie opere sembra calzare come un guanto a quella di Marcello Diotallevi, la cui ricerca creativa sembra che condivida più di una similitudine con quella del grande artista Dada. La sagoma è quasi sempre forata da lettere ritagliate a giorno; a volte invece, ma più raramente, reca lettere cucite. La prima reazione di fronte alle Fiabe potrebbe essere, ingenuamente, di chiedersi perchè le loro lettere non compongano un testo che si possa leggere. Si è tentati di cercare il messaggio... se ci dovesse essere un messaggio! Non si dovrebbe sottovalutare, infatti, l'aspetto gratuito, ludico e prettamente estetico nell'opera di questo sottile "scherzatore". Le arti visive fanno ricorso spesso alle lettere, semplicemente, per la loro bellezza. Non è forse vero, però, che la lettera è la più piccola unità significativa in termini di comunicazione visiva? Come l'aveva già segnalato Stelio Rescio a proposito dell'operazione di Mail Art intitolata Lettere al mittente, "il messaggio, ovviamente, non manca. Soltanto, non è formulato mediante il linguaggio della comunicazione scritta"... Si potrebbe aggiungere, convenzionale. Anche se probabilmente ed essenzialmente dovuto al caso, l'estrazione di queste lettere non può essere del tutto casuale. La ricorrenza della A e della Z, dell'alfa e dell'omega, costituisce il filo conduttore e simbolicamente trasparente; l'artista, consapevole che il mistero è altrove, non teme di mostrare le "cuciture". La ricorrenza delle due lettere funziona meramente come postulato dell'operazione. Neanche la scelta di lasciare al caso il sorteggio delle altre lettere è fortuita. Sfuggire all'ordine è come dare la baia alla morte. Si tratta deliberatamente di scappare, la dichiarazione essendo anche di natura esistenziale. Bisogna mescolare, confondere le carte a costo di barare (infatti, ci sono lettere che non sono mai presenti). Sotto questo aspetto le Favole sembrano la non-proposizione di un poema di Apollinaire; questo poema, pubblicato da Picabia in una sua rivista Dada, sgrana, inesorabilmente, dalla A alla Ztutte le lettere dell'alfabeto, e si chiama, guarda caso, "suicidio". Ottimista senza illusioni, Icaro lucido che non rischia di bruciarsi le ali, più Dedalo che Icaro, nel labirinto della vita, Marcello Diotallevi gioca da sempre con umorismo nero sulla lettera Z. La Zdella fine ineluttabile, ma anche la Zdella rivista Dada, la Zcome "dopo di me il diluvio!"... in un ultimo voltafaccia, l'artista si firmerebbe, quasi quasi, con la Zdi Zorro; sempre con il proposito, chiaramente, di confondere le tracce nel più puro spirito Dada, il quale, come viene definito da Tristan Tzara, "si dedica a disarticolare il linguaggio con tutti i mezzi a sua disposizione"... Queste fiabe sono forse degli origami che si piegano al gioco del cadavre exquis, delle bolle di sapone-preghiera che alzano i discorsi decostruiti del nostro quotidiano in cerca di una nuova, miracolosa, combinazione divina? La Fiaba-segnale lanciando in tal modo i suoi appelli si porrebbe, allora, come veicolo della comunicazione con I'aldilà. Questo messaggio "senza capo nè coda" avrebbe, paradossalmente, il vantaggio del non finito e pertanto quello di rivelare l'infinito dei possibili. I Poemi soprattutto, con le loro lettere piene e cioè forse meno ambigue, tenderebbero in qualche modo alla creazione di un metalinguaggio, e potrebbero assecondare l'affermazione di Biagio d'Egidio per la serie dei Senza titolo: "Diotallevi intende condurre alla figurazione certi atti linguistici inglobandoli entro la sagoma concettuale di uno spazio astratto". Ma potrebbe anche trattarsi di una nuova razza di "aquiloni a mano" da tenere in aria, mele di Guglielmo Tell, reti per le farfalle, specchietti per le allodole, affinchè le attraversino in tutti i sensi i frammenti dei messaggi simultanei portati via dal vento, come i sette colpi di pistola hanno attraversato il libro; stessa perforazione del supporto, sottolineando il dominio del caso, ma anche l'irrimediabilmente compiuto. Ogni Fiaba al vento opererebbe allora come un reagente, un testimone di quello che fu. Se traccia c'è, non di meno è lasciata dal vuoto, svelando forse un Diotallevi stoico come lo poteva essere Andrè Breton quando dichiarava "inammissibile che l'uomo lasci una traccia del suo passaggio sulla terra". Potrebbero queste Fiabe che, pur simbolizzando il volo, rimangono immobili, tener fede alla propria parola? Potrebbero volare via? Ma sì, sicuramente, se... Tutto sommato, sempre nel bellissimo testo scritto da lui per il libro dedicato ai Progetti di volo, Marcello, pur riconoscendo volentieri che "il desiderio di volare, di questi strani oggetti o improbabili creature è (...) molto forte", preferisce rispondere in modo piuttosto evasivo alla domanda. Si sa comunque quanto esperto è nell'arte riflessiva! Difatti, si fa anche presto a concludere che queste belle Fiabe che incantano ed ingannano, e che probabilmente non voleranno mai altrove che nella nostra immaginazione, non vedranno mai nemmeno le pareti di un'esposizione! E se fossero condannate ad uscire solo di rado, furtivamente -abracadabra dalla tasca di questo deus ex machina, e a circolare soltanto sotto forma di francobollo? Ciò non avrebbe niente di sorprendente, da parte di colui che viaggia nella testa, come Duchamp "viaggiava nella sua camera"; Marcello Diotallevi, solitario comunicativo, sembra vivere senza problemi, dalla sua cittadina di Fano, questa apparente contraddizione: i suoi lavori viaggiano in tutto il mondo. Ad operare il miracolo è la sua fama nell'ambito della Mail Art, ma soprattutto lo straordinario adeguarsi dell'opera in genere alla teoria dell'equivalenza dei campi culturali, che gli conferisce un carattere intrinsecamente internazionale e attuale. Cioè, questo fine nostalgico, questo perfezionista che rifiuta l'arte chiassosa, vive, a dispetto di ogni aspettativa, in perfetta armonia con il proprio tempo. Sembra, anzi, anticipare i tempi con le sue opere, leggere quanto necessarie, che sembra siano già nell'aria anche prima di nascere.






giovedì 16 febbraio 2012

FAUSTO MELOTTI AL MUSEO MADRE DI NAPOLI



Fino al 9 aprile 2012

Mostra Antologica di Fausto Melotti

Museo Madre di Napoli


Le invenzioni plastiche di Fausto Melotti nascono dall’immaginario e sono apparizioni provvisorie, insostanziali, in attesa di un soffio di vento per rianimarsi, per divenire viaggio, apparizione, racconto. Sono presenze che tendono alla tensione, al flusso indefinito, nel tentativo di trasformarsi in contrappunto poetico e apparire come …..


                                                  Primi anni  60 -  Liceo Carducci di Milano

Dopo le grandi mostre dedicate a Alexander Calder, Louise Bourgeois, Alberto Giacometti e Lucio Fontana, protagonisti indiscussi della scultura e dell’arte contemporanea, l’appuntamento ora è con il grande Fausto Melotti, ossia con uno dei più importanti artisti internazionali che ha saputo coniugare la tradizione con il rinnovamento del linguaggio artistico e della scultura contemporanea. L’esposizione antologica che si tiene nelle ampie sale del fascinoso Museo Madre di Donna Regina a Napoli accoglie in maniera cronologica oltre 200 opere tra terracotte, disegni, ceramiche, gessi e sculture in ottone, in un arco di tempo che va dal 1930 al 1986, ovvero, dai primi lavori figurativi realizzati all’inizio degli anni trenta ai bassorilievi del 1934-35 che testimoniano l’adesione dell’artista al movimento astrattista, proseguendo, poi, con i famosi teatrini e le successive opere realizzate degli anni sessanta fino al 1986, anno della morte dell’artista.


E’ a partire dal 1925 che Melotti inizia la sua lunga avventura artistica con una serie di piccoli disegni, primi accenni della serie dei “teatrini”che per lungo tempo animeranno la sua feconda stagione artistica. Nei primi anni la sua ricerca è chiaramente figurativa suggestionata dapprima dal futurista Fortunato Depero, da Pietro Canonica e poi da Adolfo Wildt, suo maestro alla cattedra di scultura all’Accademia di Brera. Da questo momento Il percorso di Melotti s’intreccia sistematicamente con quello di Lucio Fontana, compagno di corso a Brera e amico sincero di tutta una vita. E’ indubbio che le prime opere figurative risentono l’influsso di Wildt, tuttavia, la sua scultura sembra guardare più all’arte arcaica che al naturalismo di Arturo Martini e del Novecento. Negli anni 1934-35, grazie allo studio della musica e dagli apporti del cugino Carlo Belli aderisce convinto al movimento dell’arte astratta partecipando nel 1935 alla prima mostra collettiva astratta presso lo studio di Felice Casorati e Enrico Paolucci a Torino, e poi alle mostre presso la Galleria Il Milione dei fratelli Ghiringhelli; l’unica galleria privata in Italia aperta alla sperimentazione e alle suggestioni internazionali, esponendo lavori caratterizzati da una modulazione già non figurativa alla ricerca della perfezione, dell’armonia musicale e della bellezza geometrica. E‘ del 1935-36 l’opera “Costante Uomo”, una serie di 12 manichini identici usciti da una situazione chiaramente metafisica in cui la figurazione arcaica degli anni precedenti viene ora stemperata e addolcita in forme più semplificate. Gli anni successivi sono momenti difficili per Melotti. Nell’incertezza e in prossimità di una seconda guerra mondiale, l’artista si rifugia “nell’intimità delle piccole cose”, nella malinconia dei gesti consueti e tradizionali; piccole opere in ceramica cotte nella piccola muffola nello studio di Via Leopardi, 26 a Milano, rifiutando ogni forma di ufficialità e occupandosi prevalentemente di ceramica e della realizzazione di insoliti e piccoli teatrini in terracotta colorata che la critica del tempo considera e taccia come “una serie secondaria a parte” all’interno della produzione complessiva di questo artista. I “teatrini” sono dei contenitore-casa al cui interno vi sono diversi piani occupati da oggetti e personaggi ottenuti utilizzando i più svariati materiali che evocano momenti privati, piccoli racconti. Insomma, una sorta di contenitori a-temporali decisamente metafisici. Le prime avvisaglie di tali lavori vengono anticipate già in alcuni disegni tra il 1925 e il 1930. Comunque, non sarà mai una produzione marginale, di poco conto, continueranno ad essere creati dall’artista integrandosi con le successive invenzioni filiformi fino a quasi la metà del 1985. La visione dell’artista di Rovereto ormai va condensandosi per immagini interiori e per accadimenti emotivi di piccola dimensione. Fausto Melotti, ha sempre preferito formulare le opere in una dimensione più raccolta, di piccolo formato, cosciente che la monumentalità della scultura non è definibile in base alla grande dimensione effettiva e monumentale del formato ma a una intensa capacità di far emergere una visione favolistica che sollecita la riflessione e la partecipazione.


Dal 1959 in poi, l’artista ritrova la possibilità di rinnovare la scultura contemporanea tessendo un percorso difficile ma straordinariamente fascinoso, affidandosi “alle piccole cose”, all’intimità di un momento in cui il silenzio e alla ricerca dell’esistere e si fa apparizione. Rinnovamento, dicevo, ottenuto utilizzando fili di ottone saldato e diversi altri materiali occasionali e persino trovati. Risultati ottenuti indubbiamente in ritardo rispetto all’amico Fontana che proprio alla vigilia della guerra decide di trasferirsi in Argentina piuttosto che condividere gli eventi della guerra come farà l’artista di Rovereto che vivrà intensamente tale momento segnandolo in modo forte. Tuttavia, saprà ritrovare un destino nuovo e interessante alla scultura contemporanea, considerata da tempo “lingua morta”. Nascono nel 60 i Sette Savi, dei manichini che assomigliano a birilli che verranno collocati al Liceo Carducci di Milano prima di essere definitivamente spostati perché deturpati dalla stupidità e dal vandalismo studentesco. In questi anni, l’artista, nonostante sia conosciuto non è molto considerato e compreso dalla critica, forse a causa dei materiali che utilizza tipicamente “artigianali” e poveri come la terracotta e la ceramica e per quel che riguarda le nuove opere degli anni sessanta, forse perché realizzate con la semplice saldatura piuttosto che la classica modellazione della forma artigianale, rifiutando apertamente di condividere la scultura per via di un modo di fare tipicamente consueto e tradizionale. Proprio nel 1960, persino Giovanni Carandente, amico e sostenitore di tanti amici scultori, incaricato ad approntare un Dizionario della Scultura Moderna per Il Saggiatore, non prende affatto in considerazione il lavoro dello scultore di Rovereto. Ci sono tutti tranne che lui. Solo nel 1978, riconoscerà il giusto valore impresso da questo importante scultore dando l’appropriata attenzione che per anni è stata negata. Da questo momento in poi, fino al 1986, la sua particolare visione creativa risorge producendo una serie infinita di straordinarie opere utilizzando i più disparati materiali, come la creta, l’ottone, gesso, inox, vetro, bronzo, tessuto dipinto, terracotta, fili metallici, carta, rete di metallo, cartone, amianto corda, fili di lana e persino filamenti di nastro per magnetofono. I teatrini ora si sono trasformati in accadimenti provvisori; non più “rappresentazioni materiali” ma “azioni immateriali” in cui il caso modifica l’evento per definirsi in precaria e momentanea essenza malinconica, incanto sfuggente e effimera apparizione. Scriverà successivamente: “ l’opera d’arte, quando è vera, ti allontana dal mondo, ti cinge di questa barriera di silenzio, e tu la vedi come attraverso un vetro, quando è vera arte, che sia musica che sia poesia, scultura, ti trovi sempre davanti a questo vetro che ti dice che sei un pover’uomo, e che non arrivi all’angelicità dell’arte”. Ormai la musica per lungo tempo amata dall’artista è diventata poesia, presagio, contrappunto e spartito scenico. Sono opere che per vivere ed esistere hanno bisogno di un soffio di aria; in fondo, la poesia non ha bisogno di opere monumentali ma di piccoli gesti inconsueti, poveri, quasi inconsistenti. Le sue sono essenzialmente azioni di tipo performativo, nascono nello spazio e nel tempo come eventi provvisori e non hanno bisogno di ulteriori contributi elettrici come nell’opera di Jean Tinguely o degli artisti dell’arte cinetica e programmata, ma del semplice aiuto delle singole forze naturali. La tecnologia, non entrerà mai nel lavoro di Melotti, preferendo gli eventi naturali capaci di evidenziare meglio la casualità e la provvisorietà. Fausto Melotti è decisamente l’artista “dell’incorporeo”, dell’incantata apparizione soggetta al continuo cambiamento per esistere, per esserci ancora. Le opere di questo artista nascono dal profondo buio, si ossigenano di luce e cercano incessantemente il dialogo e la partecipazione corale.


Ormai la scultura è diventata sensitiva, per questo motivo le sue sculture sembrano che volano tanto appaiono leggere e precarie. Non si materializzano mai. Sono apparizioni provvisorie in attesa di un soffio di vento per rianimarsi, per divenire viaggio, apparizione, racconto. Sono presenze che non tentano di “definirsi in forma”, ma vivono l’istante come momento sfuggente, insostanziale. E’ doveroso sottolineare che dopo anni di analisi critiche, per lungo tempo divaganti e fuorvianti in ambito essenzialmente geometrico e astratto, solo negli ultimi tempi, si è prospettata per il lavoro di Melotti una diversa e più confacente lettura, direi più obiettiva - come giustamente ha fatto Germano Celant - che ha puntato sull’indeterminatezza e sulla provvisorietà del racconto piuttosto che sulla bella forma e sul rigore geometrico di matrice semplicemente astratta. Con le ultime opere la visione si fa precaria, fragile, vive nella penombra dell’azione e dell’apparizione conseguente per definirsi sinteticamente per lacerti di memoria. Presenze che hanno bisogno dell’aria e dell’atmosfera per sopravvivere, includendo nell’azione forze che possono apportare nuovi sviluppi. Insomma, una situazione decisamente provvisoria, non definita, costretta a vivere l’enigma di un limite tra la penombra e la luce. Sono “i ricordi dell’anima” che prendono forma in modo larvale e si condensano in un possibile ed ermetico racconto, nell’apparenza sfuggente di un solo attimo. Più che la luce, come afferma convinto Celant, è lo spiazzante apparato scenico che ordina e mette in forma per un momento la dimensione precaria dell’apparire, un messinscena in cui la realtà si fonde provvisoriamente con la finzione per divenire presagio dell’invisibile. L’artista non fa leva sull’accostamento casuale e ironico “dell’objet trouvè” di matrice duchampiana, non cerca la provocazione e neanche fa leva sull’utilizzo degli oggetti “tout court”, ma incentra tutto il suo lavoro sulla manualità, sulla manipolazione dei materiali semplici e soprattutto sulla trasfigurazione in base ad un emergente bisogno espressivo e comunicativo. Per tale motivo i materiali non vengono mai presentati per quello che sono ma trasformati in funzione di una sintesi, per la carica di suggestione che possono trasferire. Quindi, non sono da intendere come semplici e consuete “opere astratte” ma nascono dall’immaginario e dallo sconvolgimento dei sensi. Sono presenze che tendono alla tensione al flusso indefinito nel tentativo di trasformarsi in contrappunto poetico e apparire come favola. Una visione in realtà complessa e intricata.


Ormai la rappresentazione non preferisce la modellazione dei primi momenti figurativi ma la modulazione della danza, la leggerezza che si fa gesto, movimento e anche rivelazione. Un transitare veloce, decisamente solitario, sospeso al di la del logico e del consueto. Anche l’ultima produzione, per intenderci quella degli ottoni saldati, devono essere letti come “teatrini dell’anima” che provvisoriamente si animano di oscure energie tra passione e profondo silenzio. Quelli di Fausto Melotti sono sogni e segni poetici situati a mezz’asta nell’aria, nella dimensione più oscura e vera della penombra, sono presenze senza tempo in cui la vita, per un attimo si è rappresa. Una rappresentazione decisamente inconsistente, immateriale, transitoria, sospesa tra un emergere indeterminato che cerca anche per un solo attimo di trasformarsi in vertigine e apparire.



sandro bongiani

mostra visitata  per Exibart il 21 dicembre 2011









“Un soffio di vento”

Poema visivo di Giovanni Bonanno dedicato a Fausto Melotti




La vita

di un uomo

è fatta di oscuri tintinnii di campane appese per la gola,

di cadute, di miraggi e anche di memorie solitarie che nascono da cadenze antiche.

Solo nell’oscurità il silenzio incarna essenze malinconiche senza tempo.

La luce vola oscura tra fruscii e rintocchi che sbattono cupi nell’aria come presagi dell’invisibile.

Solo nella fantasia il silenzio magicamente prende forma.

L’aspro vento di Rovereto sfiora e accarezza le frange dei cenci appesi ad una trave di ferro sibilando oscuri e mirabili incanti per poi adagiarsi fiera sopra la polvere che il tempo ha conservato.

Solo nei ricordi il silenzio diventa poesia tra una metamorfosi e un battito d’ali che il tempo si appresta a cancellare.

Nella penombra dei pensieri, insolite presenze di latta e di ruggine colano orgogliosi lungo remoti pendii per condensarsi in entità sospese.

Solo nel silenzio dell’oscurità

gli incanti si trasformano

in note

e in contrappunti musicali

nel tentativo

di esserci

ancora.

Giovanni Bonanno © 2012







16 dicembre 2011 – 9 aprile 2012


Fausto Melotti


MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina


Via Luigi Settembrini 79 (80139),  Napoli


Contatti: +39 08119313016 -

www.museomadre.it


Da lunedì a sabato: 10.30 – 19.30 / domenica: 10.30 – 23.00

(la biglietteria chiude un’ora prima)   martedì: chiuso
intero 7 euro, ridotto 3,50 / lunedì: gratuito
Ufficio stampa
ELECTA: +39 0221563250
imaggi@mondadori.it

venerdì 4 novembre 2011

Pinacoteca Civica di Savona- Palazzo Gavotti

          ARTE DI FRONTIERA, ARMONIA DEI CONTRARI


Arte contemporanea
Città di Savona
Arte di frontiera
5 novembre 2011 - 8 gennaio 2012
Pinacoteca Civica di Savona
Palazzo Gavotti

Inaugurazione sabato 5 novembre 2011 - ore 11.00

Orario: lunedì, martedì, mercoledì: 9.30 - 13.00
giovedì, venerdì, sabato: 9.30 - 13.00 / 15.30 - 18.30
domenica: 10.00 - 13.00



Artisti Presenti:
Giovanni Bonanno
Maurizio Follin
Ice dog, (Bruno Cassaglia, Massimiano Marchetti, Cristina Sosio)
Giuliana Marchesa
Bruno Sullo
Christine Tarantino

Direttore artistico: Bruno Cassaglia
Progetto grafico: Bruno Cassaglia - Cristina Sosio
Contributo di Esso Italiana e Centro Iniziativa Donne
Collaborazione di Cooperativa Culturale A.R.C.A.





Coesistenza e contaminazione, strumenti di conoscenza e di superamento degli opposti


La storia dell’uomo ha seguito un percorso culturale basato sulla logica “binaria” dell’aut-aut ed espresso dalla disuguaglianza x ≠ y (dove, se x è il bene, y non può che essere il male) dagli esordi fino alla nostra condizione di oggi, in cui sopravvivono drammatici dualismi, contrasti tra opposti fondamentalismi che producono disastri e infelicità. Le conseguenze sono pesanti: muri di incomprensione, intolleranza, ostacoli alla cultura dell’integrazione e al progresso. Questo modello potrebbe però essere utilizzato in una prospettiva positiva, realizzando ipotesi di contaminazione tra i termini del rapporto binario, che ne verrebbe così disattivato. Una di tali ipotesi potrebbe essere avanzata nel campo dell’arte, dove ad esempio il modello “binario” antico/moderno ostacola la conoscenza delle opposte motivazioni e rende impossibile ogni atteggiamento di tolleranza: un dissidio componibile o che è necessario comporre. L’operazione qui proposta tenta la via più ardua e però più efficace di composizione: lungi da ignorare il meccanismo di contrapposizione, gli artisti lo accettano, per verificare un possibile effetto favorevole alle parti. Il metodo è semplice e diretto, basato sulla coesistenza e sul conseguente rapporto fisico tra opere di arte contemporanea (per lo più proposte in declinazioni di ricerca avanzata) e le opere residenti, patrimonio storico-culturale del Museo che accoglie l’evento. Non c’è alcun tentativo di smussare gli angoli o di modulare il contrasto né a dire il vero di accentuarlo a fini gratuitamente provocatori: il contrasto e la provocazione nascono de facto dalla diversità delle opere appartenenti ad ambiti linguistici e culturali obiettivamente distanti. Quello che, in più, è ricercato è il dialogo: un dialogo che, per sua stessa natura, instaura tra le parti un rapporto complesso durante il quale ciascuna trasferisce un po’ di sé al suo interlocutore, ricevendone qualcosa e aprendosi alla consapevolezza dell’”altro” senza rinunciare alla propria identità. In tal modo la contaminazione tra gli opposti, conseguente alla loro voluta e consapevole coesistenza, diviene strumento di conoscenza e conduce ad una reciproca valorizzazione delle opere, ciascuna delle quali trae dalla presenza del suo contrario elementi di specificità e rilevanza artistica. Alle installazioni sonore (Follin) e visive (Bonanno e Ice dog), alla scultura di ricerca (Marchesa) alla video-art (Tarantino), alla performance (Sullo), espressioni di una sensibilità artistica squisitamente “contemporanea”, è offerta l’opportunità di abitare le prestigiose sale del Museo, traendone elementi di temporanea storicizzazione; e alle opere dei Maestri proposte dal Museo di ricevere una rivitalizzazione ed un confronto con l’oggi. Così, creando contrasti decisi ma regolati da un consapevole disegno progettuale, l’operazione finisce per produrre una imprevista armonia dei contrari che supporta di una sua precisa e condivisibile ragion d’essere, al di là della natura e del valore delle opere presenti e/o installate. Questo, almeno, est in votis.

                                                                                                                  Bruno Sullo




Armonia dei contrari




Giovanni Bonanno / Da sempre interessato al Naturalismo Integrale, l’artista ha operato insistentemente ai confini delle soglie disciplinari, in una sorta di fertile e felice contaminazione poetica incentrata sul dato progettuale e utopistico avviato precedentemente a Como da artisti di grande interesse come Antonio Sant’Elia, Francesco Somaini e Ico Parisi. Inizia nel 1976 a definire le sue ricerche a carattere ambientale. Dal 1976 al 1978 lavora sull’espansione di materia attiva, con disegni, progetti, sculture e ambienti. Dal 1979 al 1982 serie di lavori sui percorsi mentali, sulle tracce e sui reperti della memoria. Nel 1980 lavora in direzione del “naturalismo integrale”. Dal 1983 al 1987 serie di lavori sulle nature alterate e sui contaminanti. Dal 1988 nuova serie di lavori sulla condizione inoggettiva. Con l’ultima serie di opere “Occupatio H.X.”, l’artista tenta di definire un modello di rappresentazione più espressivo che fa leva sull’’immediatezza provocatoria dandoci esseri profondamente mutati, nati da certi stereotipi di questa società.








Maurizio Follin / (artista multimediale di Venezia) Si è sempre definito “pittore veneziano del Novecento”. Ed è così che è conosciuto da molti, come un “pittore”, creatore di grandi, coloratissime tele, aquiloni senza cornice, che rivendicano Libertà. Osservando in toto la sua produzione, ci si rende però conto che tale definizione è riduttiva: troppo poco per un artista che, fin dai suoi inizi, ha sempre esplorato nuovi media, giocato con le nuove tecnologie, sperimentato tutte le tecniche espressive in cui si è imbattuto nella sua ormai trentennale attività. E così web, mail art, arte materica, pittura, dripping, tela, carta, legno, elaborazione digitale, video e sonorizzazioni, si incontrano, dialogano, comunicano emozioni. . . (Nicoletta Consentino).








Ice dog / (Bruno Cassaglia, Massimiliano Marchetti, Cristina Sosio) È stato fondato nel 2007 da Luisa Bugna (giovane appassionata d’arte contemporanea internazionale) e da Bruno Cassaglia (artista multimediale). Attualmente viene usato da Cassaglia ogni volta che collabora con uno o più artisti. In questo progetto sono presenti: Bruno Cassaglia (artista multimediale), Massimiliano Marchetti (pittore e musicista sperimentale) e Cristina Sosio (pittrice, incisore, videomaker), i quali propongono una installazione formata da un video, che è stato girato nelle sale del Museo che ospitano la mostra: Bruno Cassaglia, ripreso da Cristina Sosio, ha performato seguendo la sonorizzazione di Massimiliano Marchetti. L’installazione comprende anche un falso d’autore di Cristina Sosio: la Medusa di Caravaggio.








Giuliana Marchesa / E’ Presidente del Circolo Culturale Eleutheros e dal 2005 cura le esposizioni presso lo Studio di Lucio Fontana in Pozzo Garitta ad Albissola Marina (SV). Mostre personali in Italia: Genova: Galleria “La Tana” (1973); Torino: “Studio Laboratorio” (1981); Milano: Galleria “Solo Arte”(1997); Savona: Brandale (1999) e CESAM (2000); Celle Ligure (SV): Sala Consiliare (2001); Genova: Centro Civico di Villa Spinola a Cornigliano (2002); Albissola Marina (SV): Studio di Lucio Fontana (2008); Savona: Priamar (2010); Acqui Terme: Palazzo Chiabrera (2010) - Mostre personali all’estero: Maastricht (NL), Galleria “Felix” (1990); Susteren (NL), Galleria “Artanne” (1990); Tongeren (B), Museo cittadino (1991); Parigi (F) St. James et Albany (1994); Baltimora (USA) 2005 World Trade Center. Principali Mostre collettive: “Versiliana” (1997); Milano Museo della Scienza e della Tecnica (2003, 2004); Montaldo di Mondovì, loc. Vernagli (CN) (2008); Savona, Priamar (2008) in “Savona ‘900”; Albissola Marina, Museo d’Arte Contemporanea e Urbania (PU) Palazzo Ducale (2008- 2009); Messina Forte San Jachiddu (2010); Vetulonia (GR) Museo Etrusco (2010); Nice (F) La Providence (2011).









Bruno Sullo / Da oltre 30 anni lavora al tema del confine attraversabile, espresso dalla finestra.Questa, posta per la sua funzione sul muro perimetrale della casa, consente il passaggio tra dentro e fuori e allude alla possibile conoscenza tra mondi opposti, primo passo per superare la logica dell’aut-aut che ancora produce nel mondo incomprensione e intolleranza. Su tali concetti Sullo realizza opere visive, installazioni, performances e video, attraversando molte esperienze d’arte contemporanea senza perdere mai la sua identità. Sullo è attivo nella promozione artistica (col Gruppo Portofranco, poi col progetto “Il Labirinto” del Comune di Livorno, infine col Gruppo La Casa dell’Arte), e svolge attività di critico d’arte con articoli, presentazioni, conferenze e progetti didattici per Scuole elementari e medie.










Christine Tarantino / Artista americana di Wendell, Massachusetts, è mail artista, net artista, fotografa, performer e videomaker. È presente su Dodo dada arte postale e su IUOMA (International Union Of Mail Artist). Di se stessa dice tra l’altro: “Sono un’artista americana con spirito italiano. Il mio sogno è quello di visitare la bellissima Italia...”





giovedì 2 giugno 2011

VINCENZO NUCCI A SALERNO



SPAZIO OPHEN VIRTUAL ART GALLERY



VINCENZO  NUCCI


ILLUMINAZIONI:   “Tra Luce, Memoria e Malinconia”

(Retrospettiva Collaterale e Contemporanea alla 54° BIENNALE di VENEZIA - Padiglione Italia, 2011)


A CURA

di GIOVANNI BONANNO

11 Giugno al 27 Novembre 2011

Inaugurazione: Sabato 11 Giugno 2011

ore 18.00


Ophen Virtual Art Gallery, Via S. Calenda, 105/D – Salerno Tel/Fax 089 5648159
e-mail: bongiani@alice.it – Web Gallery: http://www.ophenvirtualart.it/

Orario galleria 16 -19 Lunedì – Domenica

In concomitanza con la 54a Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia, lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery di Salerno apre l’11 giugno 2011 con una mostra Retrospettiva dedicata a Vincenzo Nucci, artista siciliano di grande interesse che da diversi decenni ha improntato il suo lavoro di ricerca sulla luce e che risulta invitato al Padiglione Italia, 2011.


La retrospettiva dal tema “Illuminazioni: Tra luce, memoria e malinconia” documenta una selezione ragionata di 75 opere fra oli e pastelli (dal 1978 al 2010) realizzate da Vincenzo Nucci negli ultimi trent’anni di attività.” Il tema è il paesaggio, la campagna, la casa padronale, le mura di cinta dove si arrampicano rigogliose buganvillee fiorite di lacche rosse, e soprattutto la palma, protagonista e simbolo della fascinosa Sciacca araba che egli ama. Enzo Nucci dipinge la natura siciliana, in quel tratto di costa intorno a Sciacca queste immagini di palme e brevi orizzonti contemplano il sentimento di una assorta malinconia. Le sue opere sono “memorie di un tempo”, con le case, le palme, i rampicanti e le buganvillee che hanno preso il sopravvento e riempito il vuoto di una vita che ormai non c’è più. L’artista saccense guarda alla natura, al paesaggio con stupore. Le sue opere vivono la dimensione intima e "visionaria” dandoci struggenti emozioni e nel contempo delicati e sottili memorie che solo la poesia, quella vera, sa rivelare. Come dice Piero Guccione, (1989) "Enzo Nucci è uno dei pittori che dipingono ancora la natura. Più esattamente Nucci dipinge la natura siciliana poiché la abita; in quel tratto di costa intorno a Sciacca dove più fortunata e civile la vita conserva un barlume di dolcezza rispetto ad altre zone devastate dell'isola. […] queste immagini di palme e brevi orizzonti contemplano il sentimento di una malinconia greve "irredimibile" della nostra natura insulare." E’ dal 1980 che Vincenzo Nucci dipinge paesaggi, paesaggi della Sicilia con la casa padronale, le mura di cinta, e oggi le palme, simbolo della dolce Sicilia,del la Sciacca araba e Barocca che dal mare con orgoglio guarda all’Africa e sogna. Enzo Nucci, è un artista di grande qualità, capace di cogliere le insolite e struggenti emozioni dell’anima. Dalla sua finestra sopra il porto di Sciacca guarda affascinato l’orizzonte del mediterraneo, l’Africa e il magico ed esotico Oriente e intanto traccia immagini di palme e di orizzonti volutamente non definiti in cui la nostalgia intrisa di insolite memorie si tramuta in delicata e struggente malinconia, in assorto silenzio e soprattutto in incantata e magica rivelazione lirica.




Vincenzo Nucci : 
 “Tra Luce, Malinconia e Memoria”


Vincenzo Nucci da circa un quarantennio di ricerca dipinge ossessivamente i luoghi della memoria, della malinconia, con antiche ville secolari dove il tempo si è apparentemente rappreso e fermato. I suoi primi lavori negli anni Sessanta hanno avuto come tema centrale la guerra in Vietnam e il terremoto in Sicilia con una pittura pienamente aggiornata rispetto l’esperienze culturali e artistiche che si svolgevano in quel tempo in campo internazionale. Dopo circa un decennio di attività, di colpo, ha visto l’artista siciliano allontanarsi dalle vicende prettamente sociali e il tema ricorrente della sua pittura è diventato soltanto la sua Sicilia. Per diversi anni Vincenzo Nucci ha continuato a osservare curioso il paesaggio della sua fascinosa Sciacca con la casa padronale e le inquiete buganvillee fiorite dai colori vellutati che si arrampicano avidi a scrutare il mare Mediterraneo e l’orizzonte immacolato dell’Africa araba. Per molti anni l’artista ha dipinto in modo ossessivo solo paesaggi, quei paesaggi del Belice con gli orizzonti dati come “logos indefinito”, come superamento del dato provvisorio del reale e del visibile. Un visibile che s’incarna nella figurazione ma nel contempo la trascende e la proietta in una dimensione soffusa, intima in cui l’apparire si trasforma in essenza malinconica carica di silenzio e di cose non completamente svelate. L’artista ormai lavora sul crinale ossessivo di una figurazione in cui le immagini vivono la dimensione sospesa e impalpabile del momento.

Sono magiche visioni che si posizionano metaforicamente tra natura e storia, tra coscienza e sofferta aspirazione. La tela di Nucci non è altro che il “sudario della memoria”, dei ricordi rappresi, del passato trascorso che affiora come dolce ricordo e si condensa in materia più concreta e lirica. La visione dell’artista saccense nasce quindi da questa particolare capacità di trasportarci in un altrove praticabile in cui sentiamo persino i suoni, gli odori e i profumi delle diverse stagioni isolane; l’odore di terra dopo un temporale, il profumo del basilico, le cicale sospese all’ombra di una palma gentilizia a cantare e ricordarci i memorabili momenti di vita trascorsi accanto ad un solitario casolare di campagna. Insomma, la pittura di Enzo Nucci è intrisa di insolite memorie cariche di nostalgia e di profondo e assorto silenzio. Il paesaggio per l’artista siciliano non è semplice descrizione o pura sensazione percettiva ma inesorabile ossessione, struggente apparizione di memorie di luce non del tutto corporee ma che lasciano comunque tracce sostanziali ancora visibili. Tutta la sua pittura è intrisa di passato, di ricordi sedimentati in una dimensione alquanto provvisoria ma immediata.



Per il pittore siciliano, l’arte è essenzialmente evocazione, sortilegio, vertigine. Forse il suo mistero sta tutto racchiuso nel suo magico studio arroccato tra tante fitte case arabe pressate a dismisura sopra il porto che formano la parte antica e più vera della città di Sciacca. Lì prendono forma i ricordi e nascono le architetture e i giardini con insoliti paesaggi svuotati di ogni presenza umana; solo la memoria della natura nella sua mitica essenza e nel silenzio più maestoso. Una visione decisamente “sospesa”, di confine, dilatata a dismisura che si concede ai flussi illogici dell’anima per diventare aria, vento africano, apparizione e anche superba emozione poetica. Da lì, l’artista scruta gli umori del giorno e elabora le sue misteriose visioni dai colori tenui che si trasformano per incanto in tonalità di colore alquanto ricercati. Come dice Philippe Daverio, “quell’architettura siciliana che proviene dal profondo della storia e sembra sempre sul punto di disfarsi, pezzi di paesaggio, quel paesaggio di Sicilia che si annulla nell'infinito della luce e della percezione, pezzi di natura, quel verde impenetrabile nelle sue contorsioni e negli spini che lo difendono, portatore di fiori che gridano al sole il colore della loro identità mediterranea”. Secondo Nucci, Il percorso pittorico di un artista è fatto di sentimenti, di emozioni, di ricerca infinita, di dubbi, e poi d’immagini, di silenzio assorto e anche di interminabili viaggi che l’occhio compie in cerca di qualche autentica certezza.

Quella di Nucci è la percezione poetica che nasce dal profondo dei ricordi e diventa memoria collettiva, metafora di un paesaggio senza tempo, convincimento di ciò che ormai siamo diventati. Quasi un’ossessione continua, interminabile che rilascia flussi di ricordi provvisori, in cui la natura prende il sopravvento con le palme secolari che ingentiliscono il creato e con la buganvillea che mostra di voler recuperare l’antico contatto con il tempo passato. Una natura orgogliosa che svetta adagiandosi alle pareti del vecchio nudo tufo ormai ingiallito dalle tante stagioni trascorse nel muto silenzio. Nel paesaggio di Nucci la luce è l’unica certezza, la vera presenza che può tentare di svelare la natura dell’anima, la soffusa malinconia, l’intima visione in cui il sale per strano sortilegio s’impasta con i delicati ricordi del passato e con il sole caldo del Mediterraneo per materializzarsi in apparizioni misteriose, sfuggenti. I ricordi di luce impressi nella tela attraverso la pittura non posseggono una forma definita e definitiva, sono solo presenze che condividono la dimensione di chi è diseredato e tenta invano di resistere, di esserci ancora, “dove la natura - come dice Aldo Gerbino - si stempera nella grazia di un estenuato ricordo, come sopraffatto da quella lacerazione nostalgica che concede quel tanto che basti al passato”.

Una natura ritrovata che nasce da un assiduo contatto con artisti del suo tempo come Ruggero Savinio, Piero Guccione, Carlo Mattioli, legati da profonde affinità di come poter trattare e intendere il visibile e anche dal continuo approfondimento con il passato, come Pierre Bonnard che Nucci ama più di tutti per la rara capacità che ha il pittore francese di trattare la dolce materia e farla vibrare in delicate e ricercate intensità cromatiche. Nella pittura di Vincenzo Nucci le antiche ville padronali dal tufo macerato dal tempo appaiono come presenze sfuggenti, quasi apparizioni metafisiche. La densa materia del colore ad olio o del pastello a contatto con la luce sembra che si sfarini trasformandosi improvvisamente in essenza malinconica, in delicata e soffusa presenza onirica con il vento maestoso e prepotente del Carboi che di notte, all’ombra di una palma araba africana, sembra che sibili malinconici ricordi di un tempo ormai trascorso e intanto di giorno accarezza compiaciuta l’aspra e selvaggia radura ancora non domata del selvaggio Belice. Questa è l’emozione che si respira guardando gli insoliti scorci paesaggistici in cui la luce siciliana si distende beffarda come timida apparizione. Paesaggi della memoria che incarnano provvisoriamente il mistero della vita, paesaggi in/cantati rilevati nella dimensione più intima e sofferta dell’anima. Questa è la pittura di Vincenzo Nucci.                                                                                          Giovanni Bonanno






Biografia

Vincenzo Nucci è nato a Sciacca (Ag) nel 1941 e qui ha sempre lavorato. Frequenta l’Istituto d’Arte di Palermo e l’Accademia di Belle Arti di Agrigento. Le sue prime personali, nel decennio fra il 1960 ed il 1970 in varie città italiane, lo vedono impegnato nei temi sociali e drammatici come la guerra del Vietnam e il terremoto del Belice. Dal 1980 Nucci dipingerà solo paesaggi, anzi il paesaggio Siciliano, la casa padronale, le mura di cinta dove si arrampicano rigogliose bouganville fiorite di lacche rosse, le antiche rovine di Selinunte e, infine, lei, la palma, protagonista e simbolo della fascinosa Sciacca araba che egli ama. Nel 1989 è invitato alla Biennale Nazionale Città di Milano, Palazzo della Permanente. Nel 1991 conosce Philippe Daverio che lo invita ad esporre alla rassegna d’arte “Anni Ottanta in Italia” all’Ex Convento di San Francesco di Sciacca e successivamente organizza una sua personale alla galleria Daverio a Milano. Nel 1992 conosce Marco Goldin che gli organizzerà nel 1994 una mostra antologica a Palazzo Sarcinelli di Conegliano con scritti in catalogo dello stesso Goldin, di Guido Giuffrè e di Marco Vallora. A Conegliano, Palazzo Sarcinelli esporrà ancora nella rassegna “Da Fattori a Burri, Roberto Tassi e i pittori”, nella mostra “Una donazione per un nuovo museo”, e ancora nel 1998 “Elogio del pastello, da Morlotti a Guccione”. Sempre su invito di Marco Goldin, nel 1999 terrà una mostra antologica del pastello “Opere 1981-1999″, a Treviso nella Casa dei Carraresi, con testi di Marco Goldin ed Enzo Siciliano. Nel 2003-2004 la Provincia Regionale di Palermo organizza una sua mostra antologica al Loggiato San Bartolomeo, “Opere 1981-2003″, con scritto in catalogo di Aldo Gerbino. Nel 2006 è invitato da Philippe Daverio alla LVII edizione del Premio Michetti di Francavilla al Mare. Nel 2007 è presente alla mostra “Arte Italiana 1968-2007. Pittura”, curata da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano. Del 2008 la mostra personale “Impressioni di luce” alla Galleria 61 di Palermo e l’antologica “Opere 1984 – 2008” presso l’ex Convento di San Francesco a Sciacca con testo in catalogo di Philippe Daverio. Del 2010 la personale “Gli uomini del paesaggio” alla Galleria Spazio Forni di Ragusa e la collettiva “Mare Nostrum” alla Galleria Forni di Bologna. Nel 2011 viene invitato alla 54° Biennale di Venezia, Padiglione Italia. L’artista vive a Sciacca.