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sabato 22 novembre 2008

LA CRITICA: SAGGI E RECENSIONI

-L'ALTRA PARTE DELLA MEDAGLIA
(Dentro e Fuori l'Avanguardia)
di G. Bonanno & S. Bongiani

Saggi critici e recensioni su: Kengiro Azuma, Francis Bacon, Paolo Barrile, Carlo Carrà, Marc Chagall, Jean Dubuffet, Franco Francese, Antonio Freiles, Max Huber, Gabriele Jardini, Osvaldo Licini, Ruggero Maggi , Kazimir Malevic, Mattia Moreni, Idetoshi Nagasawa, Emil Nolde, Mimmo Paladino, Pino Pascali, Mario Raciti, Roberto Sanesi, Francesco Somaini, Chaim Soutine, Graham Sutherland, Jorrit Tornquist, Willy Varlin, Wols, e interviste a Ruggero Maggi e Francesco Somaini).
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-Francesco Somaini: “I sudari si fanno carne”
Dopo la grande mostra antologica di F. Somaini alla Rotonda di via Besana a Milano,si è conclusa recentemente un’altra retrospettiva dello scultore Comasco alla Banca Popolare di Milano. Somaini, nato a Lomazzo nel 1926, incomincia l’attività di scultore giovanissimo (1948), con una serie di crani di cavallo in bronzo che fanno leva più sul dato emozionale che mimetico. Dopo il 1950, la sua scultura mira a cogliere le forme in crescita e in espansione dinamica. Nel 1967, crea opere come ”Fonte 1”,dove la forma viene configurata come positivo e negativo in cui il vuoto, l’assenza, assume il significato della morte, per poi approdare nel 1972, a proposte “volutamente” e provocatoriamente utopistiche dove la scultura diventa, anche, “presenza monitoria e vitalistica, fortemente conflittuale nel contesto urbano (Urgenza nella città). Verso la metà degli anni 70 incomincia a creare gli Antropoammoniti (quasi fossili umani), una sorta di sculture avvolte, ”gravide”,che appaiono come prime risposte progettuali nell’Operazione Arcevia del 1976. Corpi rotanti che diventano “macchine organiche”, presenze monitori, matrici che generano impronte e svelano tracce di memorie intime e collettive. In questa condizione, la materia-corpo si impregna di sofferenza e si trasforma in presenza ansiosa, tormentata e, soprattutto, memoria organica che rivela la tragica e triste condizione dell’uomo contemporaneo. Il bisogno essenziale che ha Somaini, è quello di dare voce al corpo affinché diventi ossessiva metafora esistenziale. Da questo corale bisogno nascono gli ultimi lavori, dove la presenza-assenza, diventa essenza del corpo, così la forma crea paesaggi antropomorfi e persino “Anamorfici”, come nell’opera “Matrice Anamorfica per la Nascita di Venere” del 1985, che prelude agli ultimi esiti della sua interessantissima ricerca plastica,’come nell’opera “Fortunia” del 1988, in cui il corpo femminile, stranamente arcuato, è matrice e nella sua circolarità anche traccia. Una entità non separata,che convive entro il flusso organico, in un succedersi misterioso di piccoli accadimenti, che l’opera cela e, che generosamente lascia affiorare. Una complessa modulazione anamorfica e organica,quasi una nuova venere” dopo quella preistorica di Willendorf, un riavvolgimento della traccia stessa dove il tempo è rappreso e infinito e si tramuta in una presenza figurativa altamente evocativa di grande spessore memoriale. In questa ultima opera “la traccia-sudario” riceve lo sperma del corpo-matrice e si fa carne pulsante, ansiosa, prepotente e, nello stesso tempo, misteriosa e precaria presenza. Una presenza inquieta che coesiste tragicamente con la sua essenza visionaria.
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-Marc Chagall: Il teatro della memoria
Alla Fondazione Antonio Mazzotta di Milano si è conclusa il 12 marzo una mostra dedicata a Marc Chagall dal titolo “Il teatro dei sogni”. Grazie alla collaborazione tra la Galleria Tret’jakov di Mosca e la Fondazione Mazzotta abbiamo potuto ammirare i famosi dipinti teatrali del maestro di Vitebsk. Certamente un Chagall poco conosciuto, mi riferisco ai dipinti per il Teatro da camera ebraico di Mosca creati nel 1920, scomparsi per lungo tempo e solo recentemente restaurati. Marc Chagall nasce a Vitebsk nel 1887. Primogenito di una numerosa famiglia, Chagall sembrava destinato a vivere nel piccolo borgo tra contadini e piccole fabbriche artigiane. Per alcuni anni frequenta la scuola elementare ebraica; è proprio a scuola che Chagall indirizza i suoi interessi verso il disegno e la pittura. Decide così di seguire una scuola d’arte. Tuttavia rimane insoddisfatto per le esperienze accademiche che vengono proposte, per il mero realismo descrittivo virtuosistico che non lascia spazio alla fantasia e alla creatività. Tutto ciò mal si adatta con gli interessi di Marc che già tende alla deformazione espressiva della realtà. Nel 1906-07 prova a seguire la scuola d’arte di San Pietroburgo e infine la scuola d’arte di Elizaveta Nikolajevna Zvanceva, la più moderna e aperta agli stimoli dell’arte europea e francese. I primi lavori di Chagall, nati tra il 1908 e il 1909, risentono dell’influsso delle esperienze francesi di Van Gogh, Cezanne, e soprattutto del colore puro e selvaggio del grande Gauguin. Dopo tre anni vissuti a San Pietroburgo, Marc Chagall, nonostante sia già un artista conosciuto, decide che il suo destino è Parigi. Nel 1910, dopo quattro giorni di viaggio giunge a Parigi, proprio nel momento che trionfava il cubismo di Picasso, trovandosi a contatto con artisti, come Soutine, Leger, Modigliani e R. Delaunay. I temi pittorici affrontati in questo primo periodo da Chagall sono di vita quotidiana; nascite, matrimoni, ritratti dei genitori e dello zio violinista, espressi con un linguaggio infantile che però a contatto con le avanguardie francesi (da Matisse a Picasso), si carica di nuovi stimoli. Questi sono anni di intensa creatività, di incantamento e anche di struggente ricerca, della malinconia. Proprio nella capitale dell’arte scopre la libertà della pittura di Cézanne, il senso preciso delle forme, la scomposizione dei piani,e quindi, le nuove possibilità di “sintetizzare” la tradizione e il razionalismo con la fantasia e il sogno. Nell’opera “Io e il villaggio” del 1911, l’artista applica la molteplicità dei punti di vista del cubismo analitico, scomponendo per piani cromatici trasparenti. Chagall aveva accolto con interesse le nuove invenzioni cubiste ma sentiva anche l’urgente bisogno di “trasformare” le forme razionali del cubismo analitico in una visione espressiva ed. emozionale molto più intensa. Di certo, il lavoro di Chagall nasce dal folclore russo e dalla tradizione popolare ebraica. L’artista non vuole abbandonare i ricordi della sua infanzia, per cui ricerca nelle avanguardie di quel periodo una soluzione di ordine formale. Non desidera incarnarsi nell’asetticità del cubismo di Picasso e neanche nella negazione riduttiva di Malevic. In Picasso c’è troppa logica e razionalismo borghese, mentre in Malevic tutto diventa intuizione e sottrazione. Chagall -come afferma C. Benincasa-“invoca un mondo popolato dall’arca di Noè, gioca il destino della pittura sull’addizione iconica, sulla moltiplicazione infinita” e poi “ egli dipinge il mondo di passaggio e non lo stadio definitivo”.Il concetto spaziale antiprospettico del cubismo viene sviluppato da Chagall fino alla perdita del senso di gravità, assemblando immagini senza peso, che si muovono su ogni parte della superficie pittorica generando episodi apparentemente senza senso. Ogni diversa grandezza della forma rappresentata tende all’intima visionarietà dell’artista che rifugge dalla consueta scala dei valori oggettivi. Una realtà visionaria -dice G. Di Milia- “ fatta di esseri microscopici e giganti che convivono con una umanità volante, leggiadra e contorta che sembra prediligere soste sugli alberi e sui tetti”. E’ la tradizione ebraica russa che Chagall cerca di far convivere on il formalismo cubista. Si trova, di colpo a condividere una visione tutta protesa verso una realtà intimamente psichica. Questa è anche la via che percorre Klee, tuttavia, la pittura di Marc rimane più vicina al piano dell’esperienza sensoria. Scomponendo le immagini, cerca di riformulare una nuova realtà dove è normale camminare al contrario, volare e persino avere il volto verde. Uno spazio impossibile che incarna inconsuete associazioni immaginative. Gli anni che vanno dal 1914 al 1922, culminanti con le creazioni per il teatro ebraico costituiscono una fase creativa diversa rispetto il periodo russo e quello parigino. In queste opere, l’artista si concede totalmente fino a sublimarsi con gli episodi narrati, raggiungendo un livello di alta qualità poetica. Nel dipinto della “Musica” del 1920, per esempio, l’uomo che suona il violino occupa la parte centrale dei dipinto, appoggiato (o forse sospeso) su un minuscolo paesaggio di case su cui vola una leggiadra figura femminile: tutto intorno vi sono apparizioni e frammenti di eventi che si dipanano senza un apparente senso logico su tutta la superficie della tela. Per Chagall l’apparizione è anche finzione, il sogno magia, la realtà pura malinconia. La pittura nasce,quindi, come flusso incontenibile di ricordi, da uno stato d’animo che carico di tensione, è capace di frantumare la realtà sdoppiandola in tanti frammenti di essenza ansiosa. I pannelli di Chagall restarono appesi nella sala del teatro fino al 1925, finchè si svolsero serate da camera . Con la chiusura del teatro furono arrotolati e nascosti. Chagall, tornato in Russia nel giugno del 1973, alcuni anni prima di morire (Saint-Paul-De Vence,1985), volle rivedere i suoi capolavori della sua gioventù.
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-Francis Bacon :Il fascino indiscreto della perdizione.
Si conclude il 30 maggio al Museo d’arte Moderna Villa Malpensata a Lugano la bellissima mostra antologica di Francis Bacon curata da grandi specialisti come Ronald Alley, Hugh Davies, Michael Peppiatt e Rudy Chiappini, direttore dal 1990 dei Musei della Città. di Lugano. Questa è la prima grande retrospettiva dopo la morte dell’artista (Madrid, 28 aprile 1992) e comunque la più completa perchè ricostruisce attraverso molti capolavori un arco di lavoro che va dal 1929 al 1991, (l’exursus completo della sua ricerca). Francia Bacon era nato a Dublino nel 1909. Nel I925, a sedici anni abbandona la sua famiglia per trasferirsi prima a Londra, poi a Berlino e infine nel 1928 a Parigi. Proprio nel 1928 visitando una mostra di Pablo Picasso alla Galerie di Paul Rosenberg sente l’urgente bisogno di dipingere. I primi lavori di Francis risalgono al 1929. La rassegna di Lugano si apre con un gruppo di 4 dipinti del 1929-1930 di chiara impronta cubista. Nel 1944, a 35 anni, dopo aver distrutto tutta la sua produzione precedente, Bacon incomincia a dipingere in modo nuovo e personale. Sono del 44 i “tre studi di figure per la base di una crocifissione” che per la prima volta scandalizzano il pubblico per la loro apparenza inquietante.Libero da preconcetti di maniera, proprio in questo periodo incomincia a far affiorare il senso del dolore del vivere, sempre teso su un filo della perdizione. Lui stesso confessava:”la maggior parte delle persone non pensano alla vita. Se riflettessimo, ci accorgeremmo tutti che viviamo nel concime della terra. Il mondo è solo un mucchio di concime , è composto da miliardi di persone che si vantano di essere morte. I morti stanno soffiando nelle nostre narici ogni ora, ogni secondo che inspiriamo, dopo tutto siamo nati per morire”. Questa è la constatazione “tragica” di un grande protagonista del nostro secolo che sentiva l’urgente bisogno di esperire l’animo umano. Diceva: “non passa giorno che non pensi anche per un attimo solo alla morte. Entra in ogni cosa che faccio, che vedo, che mangio; è parte della natura”. Negli anni della sua formazione dopo essersi interessato al lavoro di Otto Dix, George Grosz e P. Picasso, l’artista inglese sente l’esigenza di confrontarsi e colloquiare idealmente con il lavoro dì El Greco e persino con Velasquez. Sono del 1953 alcune opere in cui Bacon analizza la tela di“Innocenzo X”, eliminando tutti i vari ornamenti decorativi e relegando la figura rappresentata in uno spazio circoscritto. L’immagine dell’uomo che ne viene fuori risulta molto deformata, quasi imprigionata e stravolta dal suo stesso esistere. In anni più recenti il senso di disperazione e di angoscia si era placato ed era subentrato il bisogno di allontanarsi di più dal soggetto per poterlo osservare in modo più distaccato. Con gli ultimi lavori i toni dei colori si fanno più bassi e sgradevoli; “quasi come un essere umano fosse passato sui miei quadri lasciando una scia di umane presenze e tracce mnemoniche di eventi passati”, tracce fuggenti al centro di paesaggi indefiniti con figure stravolte e chiuse da strutture spaziali limitanti che escludono ogni diretto rapporto con lo spettatore, che sembrano dissolversi nel nulla, un nulla che coincide con la sua visione precaria che ha dell’uomo. Questo autentico solitario, capace di far emergere i dubbi dell’esistenza non è stato molto amato dalla critica, per certi versi è stato considerato un epigono dell’ultimo Romanticismo. Secondo noi, Bacon è un artista geniale, capace più di altri, di far macerare l’immagine dell’uomo in modo ossessivo fino a decantarla e a sublimarla liricamente. Di certo, la pittura per Bacon non ha più modello da rappresentare, né storia da incarnare; l’artista non ama la narrazione delle cose ma lo svelamento dell’essere, per lui la realtà è solo “illusione momentanea”,una traccia sfuggente e indefinita. Non gli resta altro che fissare l’apparizione insostanziale dell’evento nel suo immediato affiorare. Inoltre, Bacon non chiede perchè le cose siano così, egli le vive totalmente per quelle che sono perchè non crede alla salvezza bensì alla degradazione e alla caduta dell’umanità. Con Francis Bacon l’arte diventa “strumento di verifica trascendentale” capace di mettere a nudo l’esistenza degradante dell’uomo d’oggi e di assorbire e riflettere le ossessioni tragiche che si tramutano in perdizione e dannazione.
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-Emil Nolde : L’armonia e il brivido
Il Museo d’Arte Moderna di Lugano, a Villa Malpensata (Riva Caccia, 5), apre la nuova stagione espositiva alla grande, organizzando un’ eccezionale Mostra Antologica su Emil Nolde, con circa 70 opere dipinte a olio e un centinaio tra carte e acquerelli provenienti da musei di tutta Europa. Curata da Rudy Chiappini, rimane aperta fino al 5 giugno. Emil Hansen (Nolde) era nato nel villaggio di Nolde nel 1867. Le prime esperienze pittoriche li realizza utilizzando colori naturali facilmente reperibili in natura, come il succo di sambuco e di barbabietola scoprendo così il fascino e il piacere della pittura. Dopo essere stato apprendista e disegnatore di mobili, nell’agosto del 1896, diventa noto per un evento straordinario; in quattro giorni, all’età di 29 anni, scala le cime del Monte Rosa e del Cervino. E’ di circa un anno dopo il primo dipinto a olio (I giganti della montagna). Ormai l’artista tedesco ha una grande voglia di aggiornarsi. Nel 1905, entra a far parte del “Die Brucke” (il Ponte), in poco tempo diventa uno dei più lucidi e intelligenti protagonisti del nuovo gruppo. Conosce Munch, Rottluff e partecipa per qualche anno alle mostre degli artisti di Dresda. In soli due anni l’artista, attraversa l’uragano del Die Brucke e s’indirizza verso una visione mistica che lo porta a creare grandi capolavori come la “Pentecoste”(1910), ”La vita di "Cristo" (1912). E. Nolde per conoscere i suoi impulsi interiori e il mistero della corruzione ha bisogno di utilizzare una pittura immediata, aggressiva, molto aspra, capace di svelare le miserie e le passioni di questo essere poco definito chiamato uomo. Una pittura,quindi, che si estende inesorabilmente al di là dei margini dello schema compositivo, utilizzando impasti acidi di colore che dilagano, deformano e dilavano la vita. Nonostante la sua violenta tavolozza, Nolde, non cerca altro che trasformare la brutalità in libertà , il peccato in catarsi. Diceva: “non vedo l’ora che venga il giorno in cui avrò trovato le armonie dei colori, le mie armonie .....“, aggiungendo, “ i colori sono vibrazioni come campane d’argento e suoni di bronzo; annunciano felicità, passione e amore...”. Purtroppo, nel 1937, soffocato dal Nazismo viene considerato “artista degenerato”, così circa 1052 opere vengono confiscate e inoltre gli viene imposto il divieto di dipingere. Sono questi gli anni più “amari” di E. Nolde, che per dipingere è costretto a lavorare di notte utilizzando piccoli fogli di carta e l’acquerello, per non fare sentire l’odore della pittura alla Gestapo. Sono un centinaio i “quadri mai dipinti” di questo periodo assai tormentato. Una pittura che a contatto con le barbarie della guerra, sprofonda nel buio della notte, in attesa di una qualsiasi suggestione che possa illuminare il suo esistere.
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-Kazimir Malevic: La pittura e il buio.
Si apre a Milano una interessantissima mostra su Kazimir Malevic, uno degli artisti più importanti dell’avanguardia russa. Le opere provengono dal Museo di Stato di San Pietroburgo, sono state esposte precedentemente a Firenze e rimarranno a Palazzo Reale fino al 30 gennaio. Questa mostra non è una mostra antologica di tutto il lavoro di Malevic, ma una scelta di opere che l’artista conservava gelosamente nel suo studio. L’esposizione inizia dando una visione generale della pittura del primo decennio in Francia, con opere soprattutto di Cezanne, Picasso, Matisse e Derain. Nato nel 1878 a Kiev da un fattore russo di origine polacca, dopo un primo periodo di lavoro postimpressionista, Kazimir aderisce al Neoprimitivismo di Larianov, della Goncarova e di Tatlin, dipingendo scene di lavoro nei campi con una rappresentazione quasi stilizzata della realtà. Con l’opera “Rosa Cubista” del 1912, di chiara impostazione cubista e futurista si avverte un interesse verso la distribuzione dinamica degli elementi rappresentati in diagonale; non esiste più la rappresentazione oggettiva del mondo ma la visione scomposta e “deformata” della realtà, una realtà dove il concetto tradizionale di tempo e spazio viene frantumato e semplificato. A Parigi, a contatto con le esperienze artistiche di quel periodo (Cubismo, Fauveau e Futurismo), Malevic capisce che l’arte può essere non la visione “ripetuta” del mondo ma la costruzione “trasformata” e ridotta in sequenze logiche, una riduzione smembrata dell’immagine che si frantuma in tanti fragili pezzi (1913). Nonostante l’interessante lavoro di ricerca di questo periodo, Malevic non è ancora completamente soddisfatto dei risultati acquisiti; lo sarà verso il 1914/15 quando riuscirà a mettere a fuoco la sua teoria “Suprematista” approdando a sviluppi di lavoro sicuramente più avanzati tra le tendenze sperimentali. Cazimir era convinto che l’arte non doveva essere il riporto passivo o fotografico dell’oggetto, ma doveva tendere all’essenza più intima e mentale, verso una riduzione minimale a grado zero. Infatti, alla rappresentazione trasformata dei lavori precedenti,contrappone, ora, la contemplazione dell’assoluto, di un essere attratto dagli eventi cosmici della natura. Per C.G. Argan, “Malevic nega tanto l’utilità sociale quanta la pura esteriorità dell’arte poiché la conoscenza della realtà attraverso le cose è relativa e parziale”, bisogna tendere alla conoscenza del mondo come “non oggettivo” e quindi, ad una concezione pura e assoluta che rifiuti la rappresentazione tradizionale e prediliga, la riduzione strutturale del linguaggio a segno mentale, capace di definire “sinteticamente” l’esistenza e il mondo. I dipinti esposti in questa mostra sono quelli che l’artista russo realizzò negli anni più dolorosi della sua vita. Opere come “quadrato nero su fondo bianco”, il “tondo nero su fondo bianco” e la “croce nera su fondo bianco” sono gli ultimi lavori di ricerca, sicuramente i più interessanti. Dopo questo approdo radicale l’artista viene imprigionato nel 1930 per le sue idee rivoluzionarie e sovversive. Tornato in semi-libertà è costretto per cinque lunghi anni a condurre un’esistenza precaria e a piegarsi definitivamente ai dettami della dittatura russa, ritornando ad una figurazione di tipo realista, con immagini e ritratti ispirati alla pittura Rinascimentale Italiana. Una pittura ormai “anestetizzata” che non ritrova più la luce dei periodi precedenti, ma si incarna nel buio tragico dell’esistenza; un buio nero che è capace di annientare perfino il desiderio, svuotare la speranza e soprattutto “la voglia di vivere” (Leningrado 1935).
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-Franco Francese: Lo spazio della coscienza
Da un pò di tempo a questa parte la critica specialistica - come afferma giustamente Francesco Porzio - preferisce interessarsi a ipotetiche linee di sviluppo privilegiate, dimenticando che nell’arte l’idea di progresso è opposta a quella di libertà e che quindi, le opere d’arte non possono essere ridotte entro categorie astratte di valori. In questo senso, Franco Francese è un caso atipico nel panorama contemporaneo dell’arte italiana proprio perchè intende vivere la sua avventura artistica da autentico solitario, non partecipando a nessun gruppo di ricerca e rimanendo al di fuori di qualsiasi polemica. Come abbiamo sottolineato varie volte, qualsiasi percorso artistico di un certo spessore culturale deve sostenersi su intrecci di linee ellittiche che si arricchiscono di continui apporti culturali, al di là dei riscontri linguistici immediati e occasionali. Purtroppo oggi le ricerche si evolvono su provvisori e improvvisati itinerari pseudo-culturali, che hanno ben poco a che vedere con I ‘autentica ricerca creativa. Proprio per questo motivo, Francese si è sempre più isolato man mano che le sue scelte si sono fatte più origina1i e personali, con le ovvie e continue difficoltà di classificazione e d’inserimento nei panorama dell’arte contemporanea italiana. Anche quando partecipò per un breve lasso di tempo al dibattito di Corrente e, più tardi alla questione del realismo, non si concesse a nessuna causa, piuttosto preferì ritirarsi , per un momento, nella sua amata campagna vercellese a meditare e a scandagliare gli anfratti dei suoi inquieti pensieri. L’atto creativo non è solo dipingere : è essenzialmente momento di riflessione e approfondimento di una idea, spesso ossessiva, che viene definita nell’opera compiuta. Questo modo di scandagliare la realtà, per Francese è molto importante e ciò spiega il progressivo isolamento rispetto ai diversi gruppi di ricerca che di volta in volta sono stati prospettati a Milano in questi ultimi 50 anni. L’artista milanese ha incominciato giovanissimo ad interessarsi ai fantasmi di Goya, a Daumier e, soprattutto, a Sironi; quello delle piccole tempere dai colori calcinosi e stratificati. In Francese, fin dagli esordi, la dimensione immaginativa assume un ruolo prioritario rispetto alle polemiche e alle trovate collettive. Nascono così i primi fantasmi, a metà strada tra l’animale e l’uomo, come “Bestiario” del 44 o “ Mostro notturno” del 46. Per Francese l’immagine non può essere descritta ma deve scaturire di inquiete associazioni visive e da profondi mutamenti mentali. Nel ‘46 -47 crea i “Crocifissi nella stanza”, prima della svolta importante con la scelta dei temi contadini poco retorici rispetto alle soluzioni proposte dagli artisti dell’area di sinistra; temi che si sviluppano fino alla crisi del 56- 57. Tuttavia, dal 1948 fino al 1951 anche lui rimane suggestionato da forme cubisteggianti (“Bucranio e coltello”del 1948, “Ettore entra dal giardino” del 1949)meno congeniali al suo temperamento romantico. In quel periodo -afferma T. Sauvage (A. Schwarz)- “le posizioni erano pressoché identiche: tutti dipingevano alla maniera post-cubista del Picasso di Guernica”. Verso il 60 l’artista cerca di trovare altre soluzioni, destrutturando violentemente la tridimensionalità delle immagini;sono di questo periodo le opere come “Enea e il diavolo”, “Teste”, “La bestia addosso”, “L’uccello batte sul vetro”, in cui ci svela come si possano rappresentare le pulsioni psichiche. Proprio nel ‘60 viene presentato da F. Arcangeli alla Biennale di Venezia; è il primo vero riconoscimento per il lavoro svolto da Francese nei campo dell’arte, tuttavia verrà accusato dal Del Guercio “ di non occuparsi abbastanza de mali esistenti nella organizzazione del mondo moderno”. Dopo il 64, con la celebrazione della Pop Art americana tutta l’arte (anche quella italiana) sembra appiattirsi alle novità massificate delle ultime trovate artistiche; Francese si trova sempre più solo. Ormai, l’artista ha bisogno di definire il suo immaginario secondo urgenze interiori, di comunicare in modo alquanto complesso, suggerendo diversi gradi stratificati di significato. Le immagini si generano dal profondo e si organizzano in base a pulsioni soggettive che trascendono i dati consueti del reale. Non si tratta di eventi descrittivi e neanche di evocazioni oniriche. Sono presenze inconsuete che nascono dal profondo della coscienza e si collocano nel flusso provvisorio dell’evento. Le opere dell’artista milanese ci parlano dell’aggressione, dello sdoppiamento che si materializza nel lento affiorare di indefinite stratificazioni di materia pittorica. L’artista, ogni volta che riprende un tema sembra volere registrare le variazioni e definire le diverse soluzioni. I temi affrontati in 50 anni di pittura sono una ventina in tutto: malinconie, convalescenze, riflessioni lucide sulla morte, ipotetici viaggi, tramonti, notti stellate e anche pause notturne. Di certo, Francese vive nel pieno di una figurazione allusiva e inquieta, che lo porta a rappresentare continuamente l’angoscia, la morte e le miserie dell’uomo di oggi; già nel 46, con quel teschio sul tavolo di crocifissione nella stanza, attraverso un forte pessimismo nei confronti della vita, si era interessato a trattare la tragicità e la fragilità dell’uomo. Non posso non pensare a un grande scrittore di questo dopoguerra come Friedrich Durrenmatt che ha riflettuto intensamente sul significato della vita e di ciò che comunemente chiamiamo morte. Secondo Durrenmatt l’uomo contemporaneo è prigioniero del proprio labirinto; non è in grado di fare dei progetti. Il labirinto è essenzialmente un fatto esistenziale che coincide con la morte. Il letterato svizzero vede l’umanità sempre più biologicamente malata, con l’uomo ch’è costretto ripetutamente a sbagliare e a perdersi. Certamente la frattura fra il come l’uomo vive e il come potrebbe vivere diventa sempre più ridicola. Nel corso brevissimo della sua esistenza non si pone nessun interrogativo. L’uomo non è un essere responsabile; quasi sempre cerca di sviare i problemi illudendosi di vivere. Credo che sia l’unico essere “conscio” della sua finitezza, ma si comporta come se non lo sapesse. Di certo la “paura della morte” lo ha sempre condizionato pesantemente, per tranquillizzarsi un paio di millenni fa, ha inventato l’aldilà e ha creato la cultura come baluardo per difendersi dalla morte. Tutta la nostra cultura è una specie di edificio che si oppone alla morte. Francese è ossessionato dal senso del sonno, dallo scorrere del tempo e anche della morte. L’artista non procede per cicli come fanno tanti altri pittori. Il suo lavoro nasce da un ricordo o da una sensazione immediata,. Spesso ritorna più volte sullo stesso tema anche a distanza di molti anni. Francese è anche uno dei pochi artisti contemporanei italiani che può definire il suo percorso artistico (più di mezzo secolo) soltanto attraverso la sua produzione grafica. Non si tratta di semplici appunti preparatori in vista dell’opera, ma lavori conclusi e definiti. Anzi, ci sembra che la produzione grafica e pittorica di piccola dimensione sia la vera e autentica ricerca di Francese, molto più interessante delle opere di grande formato. Forse perchè nel piccolo formato l’artista riesce a condensare nell’immediatezza del gesto pittorico e grafico la sua poetica fatta di piccoli brividi e di fugaci apparizioni. Francesco Porzio, nella presentazione in catalogo per l’antologica di Francese a Mendrisio, indaffarato a tentare una rivalutazione dell’artista, polemizza ingiustamente con Testori, che - secondo noi - aveva visto giusto quando faceva intendere che la pittura aggiungeva poco al disegno di Francese. E’ vero, i suoi quadri non sono semplici copie e ingrandimenti di soluzioni già compiute nel disegno, ma neanche suggestive e felici novità. Ciò spiega perchè un disegno di piccola dimensione è valutato a livello di mercato quasi quanto un olio di medie dimensioni. Porzio per giustificare il suo fragile assunto afferma che i disegni dell’artista milanese non sono mai degli studi preparatori nel senso tradizionale del termine, confessando ingenuamente,”possono precedere il quadro, ma anche non presupporlo neppure”. Per un artista creativo come Franco Francese che da tanta importanza all’emotività e agli oscuri riflessi della coscienza, il disegno risulta quanto mai basilare. E’ proprio nel disegno ”nel piccolo spazio bianco dell‘anima che si interiorizzano le sofferte sollecitazioni e le incantate interferenze della coscienza .
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-Osvaldo Licini: Un pittore tra gli angeli ribelli
Si conclusa il 28 febbraio alla Casa Rusca di Locarno la mostra antologica dedicata a Osvaldo Licini. L’artista era nato a Monte Vidon Corrado nel 1894. Dopo i primi ritratti giovanili e un viaggio a Parigi, inizia a confrontarsi con le ricerche che si svolgevano in quel periodo in Europa. Verso il 1919 incominciano ad emergere i primi accenni della sua poetica fantastica. (Arcangelo Gabriele, 1919). Nel 1930 tenta di allontanarsi definitivamente da un certo naturalismo per passare ad una sorta di astrattismo lirico ( Il bilico 1934, Uccello 1936), e verso una spiritualità “irreale” che viene definita nelle opere ultime del dopoguerra. Licini, senza dubbio, è uno dei protagonisti più appartati e interessanti della storia della pittura moderna Italiana, sicuramente uno dei pochi autentici ricercatori di statura europea. A Milano, nel 1935, aveva tenuto la prima personale presso la galleria il Milione. In quell’occasione dichiarava: “fino a 4 anni fa ho fatto tutto quello che ho potuto per fare della buona pittura dipingendo dal vero, poi ho cominciato a dubitare. Dubitare non è una debolezza, ma è un lavoro di forza. E mi sono convinto che facevo della pittura in ritardo, contraria alla sua vera natura, che non è imitazione. La pittura è l’arte dei colori e delle forme, liberamente concepita....un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia. Allora ho preso 200 buoni quadri che ho dipinto dal vero e li ho portati in soffitta. E ....i miei quadri me li sono cominciati a inventare”. Tra il 30 e il 40, per un certo periodo si ritrova a far parte del gruppo degli astrattisti Milanesi del Milione. L’artista, in quel periodo, non è intenzionato a percorrere le vie del costruttivismo astratto, piuttosto, tenta di far collimare il geometrismo razionale di Kandinskij e di Mondrian con il mondo sognato e immaginario di Matisse e di P. Klee. Secondo C. G. Argan, l’ artista “Europeo” a cui si è sentito più vicino è stato Klee; ma quella che in Klee è una malinconia metafisica diventa in Licini una melanconia storica. Pochi pittori del nostro tempo, nella finitezza assoluta delle opere, ci comunicano il senso dell’infinitezza, approdano ad un’indeterminata e indefinita realtà che si scioglie in impalpabili apparizioni sfuggenti e portatori di oscuri presagi. Essi rivelano un’esistenza precaria tra l’apparizione e il capriccio, tra l’ossessione e il delirio, in uno spazio anemico, dove l’enigma e il sortilegio sono gli elementi da svelare. Dentro questa nuova e inquieta dimensione lirica sta il segno della sua straordinaria visione poetica.
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-Chaim Soutine: I colori della desolazione
Dopo Emil Nolde, Willy Varlin e Francis Bacon, Lugano rende omaggio ad un altro dissidente e anarchico dell’arte contemporanea: Chaim Soutine. L’artista lituano è stato un autentico visionario di classe, disposto a mettersi in gioco in qualsiasi modo pur di dare corpo al proprio disagio e svelare l’intima e sofferta visione che ha dell’uomo. Nonostante abbia condiviso alcune esperienze di ricerca francesi, non ha voluto aderire ad alcuna corrente dell’arte contemporanea di quel tempo, forse per il suo sviscerato individualismo identico a qualche altro artista di Montparnasse. Infatti, le sue prime esperienze artistiche si svolgono alla Rouche, a contatto con alcuni giovani artisti cui condivideva la bohéme e il voluto isolamento creativo. Era nato a Smilovitchi, nel 1893, in un povero villaggio della Lituania. Di famiglia molto numerosa; era il decimo di undici fratelli, dopo aver soggiornato a Minsk (Bielorussia) come apprendista in una sartoria e aver frequentato tre anni all’Accademia di Belle Arti a Vilna, nel 1913, si trasferisce a Parigi. Di colpo si trova proiettato nella mitica Rouche, alloggiato in un caseggiato fatiscente occupato da giovani artisti affamati. Proprio alla Rouche, luogo in cui ”si crepa o si diventa famosi” (Chagall), conosce i suoi compagni di avventura: Archipenko, Zadkine, Chagall, Laurens, e poi, nel 1915 anche il nostro Amedeo Modigliani. Sebbene si confronti con 1e esperienze della vanguardia parigina, già sembra attratto e affascinato dal lavoro di alcuni artisti del passato studiati al Louvre; in particolare di Rembrandt oltre che di Courbet. Nel 1915, il suo amico A. Modigliani, ancora sconosciuto e disperato, lo presenta a Leopold Zborowski, collezionista di alcuni pittori indipendenti di Montparnasse. In questi primi anni di lavoro l’artista dipinge una serie di nature morte e alcuni ritratti di un certo interesse. Nel 1918, Parigi viene bombardata dai tedeschi, Soutine, grazie all’amico Zborowski si rifugia prima a Cagnes-sur-Mer e poi, nel 1919, a Ceret, dove vi soggiorna fino al 1922. Il periodo breve ma intenso di Ceret ci rivela un artista eccezionale di grande talento. Dopo i paesaggi terribilmente sconquassati da una furia distruttrice, ben presto nascono gli inquieti e insoliti ritratti, come il “Piccolo pasticciere” e la “Desolazione” del 1921, che lo renderanno famoso. Benché abbia consolidato un certo successo a livello economico e culturale, l’artista lituano sente l’urgenza di accentuare la violenza espressiva del colore; dal 1922, incomincia a dipingere con chiaro riferimento a Rembrandt, carcasse sventrate di animali “Il bue scuoiato”, del 1925 e il “Gallo morto”, del 1926). Infine, durante gli anni oscuri della guerra, Soutine è ancora capace di qualche altro morso creativo, come nella tragica e struggente “Maternità”,del 1942, che conclude prematuramente il suo percorso artistico nel 1943, (l’artista viene ricoverato per un intervento chirurgico allo stomaco a cui non riesce a sopravvivere). Dopo la sua morte solo pochi artisti come Scipione, gli artisti del gruppo Cobra, De Kooning e soprattutto Bacon e Varlin sono in grado di comprendere appieno il grande ruolo giocato da “l’enfant terribile” di Montparnasse. Ma chi era veramente Soutine? Era un ragazzone con un viso pesante e carnoso con un’abbondante capigliatura morbida. Negli anni di vita trascorsi a Montparnasse, si racconta che non fu visto ridere mai. In un romanzo dedicato a Modigliani, Clemente Fusero lo descrive così: ”C’era nella sua fisionomia qualcosa di infantile e di brutale al tempo stesso. ‘Tutto, in lui, dava l’impressione di una forza fisica, di una capacità morale di violenza che, scatenate, avrebbero frantumato qualunque ostacolo. Ma Soutine pareva inconsapevole della carica enorme di forza che portava in se. Questa forza gli ristagnava dentro. Chaim Soutine, venuto dal ghetto di Vilna, sembra nascondere nel suo cuore di fanciullo tutta la tragedia d’una razza e tutta una oscura storia di generazioni umiliate e tormentate”. Proprio così, la sua forza si addensava dentro i suoi pensieri e molto spesso si trasformava in ossessione e tormento. Un personaggio decisamente angosciato e solitario, carico di una energia mostruosa ma nello stesso tempo smarrito e deluso. Alla base del suo pessimismo vi è la triste condizione di ebreo sentita come una punizione. Di certo, la sua sofferenza nasce dalla riflessione sui diseredati che vengono costretti all’isolamento e all’umiliazione sociale. Tutto ciò è vissuto da Soutine, come sofferto travaglio partecipativo, e nel contempo come gesto catartico. Per R. Sanesi “l’energia deformante che investe i ritratti è il segno di una estrema capacità di indagine psicologica, ma anche l’indizio di una pietosa e quasi orgogliosa partecipazione.”. Soutine incarna’l’angelo ribelle e sacrificale de l’Ecole de Paris, che con struggente partecipazione si fa carico della sofferenza dell’umanità e anche delle miserie della vita. Chaim, di certo, sa utilizzare la sua angoscia per stravolgere e sgretolare ciò che trova davanti; il suo compito ingrato è quello di svelarci la sua tragica e sofferta realtà carica di troppe essenze e urgenze interiori. La sua furia implacabile deforma e modella i precari equilibri per evidenziare dalla materia vibrante qualche parvenza umana. Il colore è sentito come bava incandescente che si deposita sulla tela in un accumulo apparentemente caotico e convulso degli impasti cromatici. Soutine sa come fare per mettere a nudo il suo travaglio interiore, conosce perfettamente gli anfratti della sua esasperazione e anche il modo per svelarli. Ormai, non condivide la pittura come progetto, bensì come atto liberatorio. Secondo Franco Passoni, “c’è in questo artista una violenza rabbiosa contro il grandioso che gli scompiglia il disegno, gli svuota le forme delle strutture archetipe e gli squilibra il più elementare ordinamento a tutto vantaggio del colore e della materia pittorica”. Un colore, che nonostante la densità degli impasti cromatici, proprio per eccesso di fisicità, sembra depurarsi e sublimarsi. In fondo1opera di Soutine porta i segni del travaglio e della macerazione, espressa con forme deformate di materia greve e con impasti di colore mucoso che si imputridisce e si raggela dentro la brace purificatrice del suo stesso malessere esistenziale.
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-Carlo Carrà: “Il cupo silenzio delle cose”
Si inaugura sabato 21 marzo alla galleria Il Chiostro di Saronno la mostra antologica di Carlo Carrà, con trentadue opere (venti oli e dodici disegni) che abbracciano un arco di tempo che va dal 1911 al 1964. Artista colto, di grande originalità e intelligenza, nella sua lunga attività ha sempre saputo lavorare in modo coerente, quasi come una missione doverosa che l’artista doveva compiere e svelare. Un artista lucido, che sapeva riflettere intensamente e con acute osservazioni; nel 1918 scriveva: “io sento di essere tutto legge e non un semplice rendez - vous degli elementi come vorrebbero farmi credere quelli del naturalismo, che tutta l’arte la riducono in cose fatte con abilità manualesca”, e poi aggiungeva “sento che non sono io nel tempo, ma che è il tempo che è in me”. l’artista Piemontese (1881-1966) aveva iniziato l’attività con lavori divisionisti , per poi passare nel 1910 a firmare il primo manifesto Futurista di Marinetti e a lavorare in tale direzione per alcuni anni, per approdare nel 1916 alla pittura Metafisica. Già in questi primi anni di ricerca, l’artista giungeva a risultati di grande invenzione come nell’opera Funerali dell’Anarchico Galli del 1911 o nel Gentiluomo Ubriaco del 1916, dove incomincia a sorgere verso il Neoprimitivismo che caratterizza tutto il lavoro successivo. Con il 1921, per Carrà, ogni esperienza d’avanguardia precostituita è ormai limitante. L’artista, finalmente trova il suo modo per viaggiare tra le pagine della poesia, con la natura, che sempre più viene “rilevata e svelata”con pochi elementi in uno spazio stranamente desolato. Una natura “ primitiva” che ha la capacità di generare misteriosi silenzi, una realtà intima di un grande rivoluzionario dell’arte, che con coscienza, sente il bisogno “urgente” di colloquiare con Giotto, Masaccio e perfino con Paolo Uccello, per poi spingersi più in là, verso la sintesi e l’essenzialità di P. Cezanne. Un artista per niente tradizionalista; tradizione e avanguardia coesistono in lui, sempre, proprio perché sono le esatte metà di una medesima sfera, come lui diceva.Una ricerca, quindi, che si avvia verso una semplificazione del reale e un recupero di nuovi equilibri formali. Per capire ciò, basta pensare al Pino sul mare del 1921 o all’Estate del 1930, dove le masse di colore denso e acidulo, creano misteriosi silenzi, dove il tempo, per strano sortilegio,sembra depositarsi lentamente sul“muto presente delle cose” quasi a sublimare la cupa teatralità della nostra precaria esistenza. In questa rassegna antologica, ci sono opere di particolare interesse come l’opera Donna+Bottiglia+Casa del 1913, di chiara matrice Futurista, Paesaggio della Garfagnana del 1925, La Casa del matto del 1927, Sentiero di montagna del 1929 e Marina del 1941, fino all’opera Interno con tavolo del 1964, dipinta dal maestro poco prima della morte. Accompagna l’antologica un catalogo con un testo critico di Elena Pontiggia e una testimonianza di suo figlio Massimo Carrà. Artista solitario e lucido,riflessivo e ironico, riesce a approfondire il meglio della pittura contemporanea del suo periodo storico nella severità e nella pazienza artigianale del lavoro; sei anni prima di morire confessava: “sono dell’opinione che in arte, non sono le etichette, e correnti,le chiacchiere quelle che contano, ma solo i fatti, i risultati e questi fatti, questi risultati, io li riconosco validi e perfettamente realizzati in poesia”. Dichiarazione certamente profetica e attuale, che ci fa riflettere sulla situazione confusa, monotona e frivola dei nostri giorni.
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-Jean Dubuffet : L’arte tra follia e creatività.
Dopo la stasi dei mesi scorsi, la situazione artistica a Milano si è destata con una serie di mostre di grande interesse. Questa volta, però, sono i privati che in assenza di una vera politica culturale stanno dando una scossa energica alla vecchia e stanca Milano, prospettando rassegne di un certo prestigio, come quella su Jean Dubuffet alla Galleria Blu di via Senato 18, con circa 30 opere tra disegni, tecniche miste, collages e olii eseguiti tra il 1948 e il 1991, organizzata nell’ambito di una vasta proposta espositiva “L’anormalità dell’Arte”, in programma alla Galleria del Credito Valtellinese presso il Palazzo delle Stelline. Due mostre da visitare se si vuole veramente comprendere il lavoro dell’artista francese e il pensiero dell’ Art Brut. La rassegna “L’anormalità dell’Arte” è stata curata da Gigliola Rovasino e da Bianca Tosatti, comprende oltre cento lavori tra artisti molto conosciuti come Bacon Klee, Chagall, Pollock, Savinio, Giacometti , Tancredi, Warhol e personaggi completamente sconosciuti e al di fuori del mondo dell’arte; i cosiddetti “malati di. mente”, come Guido Boni, Marco Raugei, Giordano Gelli o Adolph Wolfli, stupratore di bambini, rinchiuso all’inizio del secolo in un ospedale psichiatrico in Svizzera. Quali sono i motivi che hanno spinto i curatori a confrontare il lavoro di questi personaggi apparentemente senza punti di contatto? Questa rassegna risulta straordinariamente interessante proprio perchè si cerca ad indagare sulla cosiddetta “normalità e anormalità” nella vita e nell’arte, ovvero, tra la creazione spontanea dei malati di mente (l’Art Brut) e l’Art Cultural degli artisti. Di certo, la nostra società, per comodo, ha sempre fatto una netta distinzione tra un’arte ingenua e quella colta, innestando un alto spartiacque, che ha sempre delimitato le due esperienze, purtroppo, si è capito troppo tardi che non esiste una chiara linea di demarcazione che possa separare facilmente le due situazioni. Oggi, in un contesto assai alienato è molto più facile trovare la cosiddetta “anormalità”; quante persone vanno a curarsi dall’analista perchè soffrono di strane fobie, di nevrosi e persino di allucinazioni. Come è possibile tracciare una linea che demarchi la normalità dall’anormalità, la logica dal delirio, il gioco dall’ossessione. Tutto ciò risulta difficilmente decifrabile. Certamente, uno degli artisti che capì per primo questo grosso dilemma è stato Jean Dubuffet,che con”l’Art Brut” creò quel movimento capace di difendere l’arte dei malati di mente da quella”accademica . Il binomio “arte -follia” si era posto già nel mondo greco con la “ispirazione”, che faceva dell’artista un esecutore prediletto degli dei. Cesare Lombroso, nell’Ottocento, capì che l’arte era sinonimo di follia e che la follia era una esigenza prioritaria per produrre arte, infatti nel 1882, scriveva: “La follia soventemente sviluppa l’originalità della invenzione perchè, lasciato più libero il freno dell’immaginazione, da luogo a creazioni da cui rifuggirebbe una mente troppo calcolatrice per paura dell’illogico e dell’assurdo...”. Lo stesso Dubuffet, spesso, confessava:”Credo che in Occidente si abbia torto a considerare la follia come valore negativo, credo che la follia sia un valore positivo molto prezioso”. In questa rassegna la cultura “alta” dell’arte si confronta con quella “bassa” dei malati di mente, finalmente, la follia e la cultura convivono tranquillamente, trovando, anche, inaspettati punti di contatto. Per quanto riguarda Jean Dubuffet, dobbiamo convenire che in lui ha giocato a suo favore il fascino indiscreto dell’insolito, del mistero, essendo sempre stato interessato ad indagare sul versante “non logico” della visione e quindi a dare dignità e destino alla follia e al delirio. L’artista francese era nato a Le Havre nel 1901 ed era morto nel 1985 a Parigi. A circa centenni aveva iniziato a dipingere, ma è soprattutto nella seconda metà del secolo che aveva trovato, grazie alla complicità dei malati di mente, gli stimoli e la situazione adatta per dare una “sterzata vitale” a tutta la storia dell’arte. In tutti questi lunghi anni di lavoro, Dubuffet ha sempre lavorato per cicli, dalla “Preistoria” (1917 -1942), dove si alternano momenti di abbandono e di ripresa dell’ attività, fino alla produzione continua che va dal 1942 al 1984, dalla materia e dell’informale degli anni 50 al ciclo dell’Hourloupe del 1974, tutto proteso verso un’arte totale, per poi concludere con l’ultimo ciclo di lavoro in cui cerca di riprendere le vecchie ricerche e definire strani grovigli di materia che stanno sospesi tra la figurazione e l’astrazione, tra l’essenza selvaggia e la natura. Libero da preconcetti, attento a riflettere silenziosamente su possibili “nuove situazioni” e soprattutto, a rimettersi continuamente in gioco, cambiando spesso i connotati al suo lavoro e progettando situazioni sempre più imprevedibili; lo confermano proprio gli ultimi lavori che vivono dentro la penombra dell’immagine, sospesi in un contesto anemico. Di sicuro, Dubuffet è stato il personaggio più singolare dell’arte del nostro secolo, l’unico che ha saputo liberarsi dalle costrizioni della cultura ufficiale, e alla bisogna, dare fiato al flusso dirompente del pensiero selvaggio, del resto, l’atto d’arte senza freni inibitori, deve per forza implicare l’alta febbre della follia e del delirio; tutto ciò può mai essere considerato normale?
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-Kengiro Azuma: l’essenza come presenza immateriale.
Ancora un’altra bella antologica organizzata al Museo d’Arte di Mendrisio, questa volta dedicata ad uno dei più interessanti scultori contemporanei: Kengiro Azuma. Nonostante l’apparente semplicità del suo lavoro, parlare di Azuma (Yamagata,1926) risulta assai complesso e difficile. L’ho incontrato per la prima volta a Mendrisio in occasione di questa sua antologica , sebbene conosca da tempo il suo lavoro di ricerca. Dapprima sembra impacciato, riservato, dopo un pò si lascia andare e incomincia a raccontare la sua vita, i primi anni di sofferenza, la fame, la grande ammirazione per Marino Marini e il suo vero amore: la scultura. Ora non è più silenzioso, sembra un fiume in piena carico di energia, di entusiasmo e in certi momenti anche di mistero, proprio come certi guerrieri a cavallo ritrovati recentemente in Cina. Non a caso il suo primo e vero interesse è stato verso i cavalli e i cavalieri di Marino. Kengiro, dopo aver frequentato l’accademia di Belle Arti di Tokyo, nel 1956 diventa assistente nella stessa Università. Per più di sei anni si trova a vivere nella stessa casa con Atsuo Imaizumi, oggi storico dell’arte e vicedirettore del Museo nazionale d’arte moderna. Di certo, Azuma viene a conoscere il lavoro di Marino per mezzo Imaizumi, che aveva ammirato le opere dello scultore pistoiese al Museo d’Arte Moderna di Roma, ma soprattutto, da una monografia scritta da Umbro Apollonio nel 1953, Ed. del Milione di Milano, (non nel 1948, come risulta nella presentazione in catalogo). Dopo aver guardato all’Ottocento e al Novecento, l’artista capisce che la nuova scultura non può essere quella studiata all ‘Accademia assieme a Kazuo Kikuchi e Toyoichi Yamamoto, allievi, rispettivamente di Despiau e Maillol. Così, nel 1956, decide di venire a Milano a frequentare il corso di scultura con Marino all’Accademia di Brera, grazie ad una borsa di studio offerta dal governo italiano. Partito da esiti di tipo accademico (Nudo,1950), a contatto con Marino tenta di rinnovare il suo modo di fare scultura (Nudo, 1956), tuttavia, è proprio il fascino esercitato dal grande artista toscano che gli impedisce di evidenziare la sua vera visione del mondo. Marino, più di una volta prova a metterlo in guardia consigliandolo a scavare in se stesso: L’ammirazione non deve diventare imitazione”. Azuma capisce che deve trovare una soluzione ai suoi problemi. Nonostante la lontananza dal suo Giappone, l’insoddisfazione e gli stenti, riesce alla fine a riscoprire le proprie radici e a rifiutare la tridimensionalità delle sue prime esperienze plastiche, riducendo la volumetria e strutturando la forma per piani, fino a trovare nella bidimensionalità la giusta esigenza espressiva. Nel 1961 nascono i primi “MU” e verso il 1984-85 gli “YU”. Secondo l’artista giapponese, il MU, l’invisibile, il vuoto, il nulla è complementare dello YU, il visibile, il pieno, il tutto. Sono le due facce della stessa medaglia; sia il MU che lo YU per svelarsi hanno bisogno di. integrarsi reciprocamente. Alla fine si identificano e si completano l’uno nell’altro. Se viene a mancare uno di questi elementi non ci può essere rivelazione, infatti, per conoscere il visibile c’è bisogno di capire l’invisibile e l’ignoto, così come per conoscere la forma c’è bisogno dello spazio. Per noi europei, la scultura esiste come forma e presenza autonoma che esclude un rapporto “coitale” con lo spazio. Mentre per la cultura orientale e la Filosofia Zen, ogni elemento per significare qualcosa, deve necessariamente integrarsi col suo doppio. Per Azuma, lo spazio ha la stessa importanza della forma volumetrica. Trovo molto interessanti i lavori bidimensionali di questo primo periodo di lavoro, proteso ad una sorta di tridimensionalità tutta interna; quasi una volumetria in negativo. Le sue superfici non evidenziano il vuoto,”l’assenza”,come afferma Luciano Caramel, semmai, “la presenza dell’essenza “, una presenza di cose scomparse ma ancora visibili seppur in”negativo”. Insomma, i “vuoti” non sono altro che “essenze” tangibili di una presenza ormai dissolta resa incorporea e immateriale, una presenza che diventa, alla fine, impronta, e traccia sfuggente. Credo che senza liberarsi della concezione tipicamente occidentale dello spazio, non possiamo comprendere appieno la giusta dimensione del lavoro di Kengiro Azuma. Soltanto nel vuoto risiede quello veramente essenziale. L’utilità di un vaso non sta nella sua forma esteriore, ma nello spazio vuoto, un vuoto che può contenere una forma, e quindi tramutarsi ancora in pieno. Solo nel vuoto ci può essere un’altra forma. Negli ultimi tempi, dopo una lunga serie di opere incentrate nella bidimensionalità della superficie, Azuma sente la necessità di definire i suoi eventi in forme sempre più tridimensionali, fendendo e svelando l’intima struttura interna. Tuttavia, dobbiamo notare in qualche opera come la “Composizione” del 1965, realizzata in tubi di ottone o il “MU 464”,versione gigante del “MU 116” del 1964, che il tentativo di Kengiro viene risolto in modo inopportuno, creando elementi che tendono ad assumere forme pure nello spazio, decisamente estranee alla vera sensibilità dello scultore giapponese. E’ con opere come “MU 749” e “MU 765” del 1976 o lo “YU 84” del 1987 che Azuma ritrova la sua autentica vena visionaria. Dopo il MU, nel 1984-85, scopre lo YU. Makoto Coka si chiede: non ho la più pallida idea del significato che l’artista dà al repentino passaggio dai MU agli YU. Non si intravedono segni particolari, inoltre, nella serie YU ricorrono gli stessi celebri vuoti della serie MU” - e conclude - “il passaggio dai MU agli YU si spiegano solo in minima parte con le differenze esteriori”. Ancora una volta ci troviamo impossibilitati a separare i due momenti. Il 1994 è l’anno che il grande Azuma, non contento, si permette di aprire, una nuova stagione di ricerca alla sua scultura. In un disegno dal titolo “KU 941”,i l MU si integra con TU per diventare “KU”. Chissà, un’altro tentativo d’integrazione e di sintesi ? Di certo, Azuma sa impregnare di eternità e di struggente emozione la sua scultura, sa condensare nella sintesi e nella simbologia della forma, l’armonia, la serenità, l’assorto silenzio della natura e anche il trascorrere impetuoso della vita Ma la vita cos’è? “La vita è breve, ma cento anni sono tanti, per arrivare a cento anni basta chiudere gli occhi, il tempo passa veloce . Parola di Kengiro Azuma.
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-Graham Sutherland : La parte nascosta del reale.
A Varese, negli spazi di Villa Mirabello è in corso fino al 26 luglio una rassegna dedicata all’inglese Graham Sutherland dal titolo “ l’Atelier dei Ritratti”,curata da G. Testori con 61 studi preparatori tra acquerelli, matite ritratti di personaggi illustri.E’ una fredda giornata di giugno,in questo periodo la natura è piena di vita, carica di essenze,di energia,di colori.Cammino nel verde del parco di Villa Mirabello fissando una lucertola, che dopo la pioggia si riscalda al sole accanto ad un roseto; non posso fare a meno di pensare al lavoro di Sutherland,alle “metamorfosi”di natura visionaria. Peccato che la suddetta mostra abbracci soltanto l’opera ritrattistica. Chissà perchè il nostro Testori si limita a presentare la ricerca dei ritratti e non trova il coraggio di spingersi oltre;verso il lavoro più onirico. Perchè scindere la ritrattistica dal suo lavoro di ricerca più organico? A causa di ciò,la rassegna appare di breve respiro e poco chiara; soggetta ad essere fraintesa, perchè chi non conosce il grande Sutherland, non riuscirà a comprendere appieno la giusta portata del suo lavoro. Non si capisce perchè Testori si accanisce su mostre di grande respiro, come l’antologica dedicata recentemente a Lionello Venturi alla Galleria d’Arte Moderna di Verona, dal titolo “Da Cezanne all’Arte Astratta”, innestando polemiche inutili (Longhi o Venturi?) e poi si accinge “con tanta leggerezza” a progettare rassegne come questa, dal fiato corto e dal destino incerto e ingrato. Del resto, l’Assessore alla Cultura di Varese, A. Benedetto Bortoluzzi, trovandosi in mano dei Sutherland, ingenuamente crede che si possa iniziare un dialogo “ideale” con la vicina Svizzera, con i Musei del Canton Ticino e persino con il piccolo e splendido Museo di Mendrisio, ben sapendo che ci manca a noi la serietà e la professionalità necessaria dei cugini Elvetici. E’ dal 1981 (Corriere della Sera del 6 dicembre), che il Testori si lamenta, a torto, dell’incomprensione subita da Sutherland, riguardo la sua ritrattistica. A parer mio, la ritrattistica deve essere intesa come la fase momentanea di ossigenazione, prima di un altro graffio di vitalità e comunque “complementare” al lavoro più conosciuto(si veda gli Uomini che camminano, del 1950).Forse per capirci meglio, proviamo a delineare la personalità di Graham.Nato a Londra nel 1903, artista dapprima contrastato e poi riconosciuto come uno dei due più grandi artisti inglesi, assieme a Francis Bacon. Giovanissimo sentì l’influsso di un visionario di razza, come è stato William Blake per poi ricollegarsi, giustamente, alle fantasie oniriche di Lam e allo suggestioni d Picasso e di Paul Klee. Designato “War Artist” (artista di guerra) insieme ad altri artisti, tra cui lo scultore Henry Moore, dal settembre 1940 al novembre 1944, partecipa alla guerra creando più di 500 disegni’. In quel tempo Henry Moore disegnava corpi accovacciati dentro la metropolitana, mentre Sutherland studiava gli effetti di una esplosione,interessandosi alla forza distruttiva e alla devastazione. Alla fine della guerra si ritira sulla Costa Azzurra, lavorando su un’idea di paesaggio innervato da una visionarietà tipica di tutta la tradizione artistica inglese, creando forme vegetali e minerali che si trasformano in strani totem mostruosi. Garibaldo Marussi in un articolo su Le Arti del nov. 1965, dichiarava: ”alla cupezza delle prime opere, con il trasferimento nel sud della Francia, il colore si fa più vivo e mediterraneo”.La natura diventa dirompente, ossessiva, inquietante. In questo periodo Sutherland scopre sottili analogie tra il mondo animato e vegetale; i rami, i sassi, le rocce, le tuberose, tutto si trasforma in larva, mollusco e insetto. Per Sutherland indagare significa conoscere e svelare il “mistero delle cose”, scoprire il destino del nostro esistere. E’ abbastanza illuminante qualche dichiarazione dell’artista che rivela il suo senso tragico dell’universo: m’interessa la struttura della nascita e i movimenti compiuti dalle forme naturali per librarsi dalla terra e le corrispondenze tra forme naturali, umane, geologiche,botaniche “.Ne deduciamo un “estremo bisogno” di penetrare dentro i ritmi della natura, sentirla per poi distillarla, filtrando le essenze in una“sostanza” misteriosa. Infatti, confessava: “devo diventare permeabile come la carta assorbente, paziente e guardingo come un gatto”. Solo così, l’artista poteva affondare i suoi artigli dentro gli strati profondi della conoscenza,verso un mondo misterioso e occulto che veniva profanato,in cambio di un pò di verità.Scrive F. Caroli: “Sutherland vede e giudica le cose ogni volta come se fosse la prima volta, non ne ignora i talvolta mostruosi aculei e non può sfuggirne le ferite inevitabili”, e poi aggiunge: ”deplora la nostra sconsiderata fiducia,non possiede verità, ma insinua nella semplice logica, dell’indagine il dubbio “. Subito dopo la guerra frequenta lo scrittore W. Somerset Maugham e proprio con lui comincia la serie dei ritratti; quelli che sono ora esposti a Villa Mirabello. L’indagine sulla natura affiora anche sui volti dei personaggi ritratti, un’indagine spietata che la vita compie sul volto di ogni personaggio effigiato, congelati in pose dai segni misteriosi, proprio come dei tronchi caduti in attesa del disfacimento e della macerazione della forma o forse della rinascita, per convincersene basta osservare il ritratto di Maugham dal ghigno beffardo,i quattro piccoli ritratti di Churchill del 1954 o anche il ritratto di Konrad Adenauer dal volto larvato e dimesso.Tutta l’opera dell’artista inglese vive il lancinante fremito della passione e della rivelazione, la realtà consunta nella sua “misera fisicità” rivela la parte nascosta e oscura dell’esistenza. Artista fino alla fine coerente, per un pò di verità si concede all’ombra della terra, in cambio di un’ultima “metamorfosi”; quella del trapasso da una dimensione certa a una dimensione ignota e imprevedibile (1980).
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-Wols: La pittura tra sogno,segno e malessere
Si è conclusa alla Galleria Blu di Via Senato 18 a Milano, una interessante mostra dedicata a Wols, con opere del 1938 al 1949. Wols, pseudonimo di Wolfang Schulze, nacque a Berlino nel 1913, trascorse la sua fanciullezza a Dresda dove entrò in contatto, seppur per un breve periodo, con gli artisti della Bauhaus. Nel 1932 decise di trasferirsi a Parigi. A contatto con le nuove ricerche surrealiste di A. Breton incominciò a definire il suo lavoro di ricerca. Fino al 1946 dipinse esclusivamente acquerelli di piccolo formato come quelli esposti in questa mostra (Deux sous le baldaquin rayè del 1938, le “Deux tetes” o la “Citè” del 1943). Oramai non è facile vedere tanti pezzi di Wols in una sola mostra; la produzione di questo artista risulta assai limitata proprio perchè visse una vita molto breve (morì alcolizzato all’età di 38 anni) e solo negli ultimi 5 anni riuscì a lavorare costantemente realizzando circa cento lavori a olio. Wols, risulta interessante perchè recupera il segno incisivo di Klee e per l’inconsueta capacità di sintetizzare l’immagine in senso fantastico. Nel suo lavoro,tuttavia, non vi è traccia di alcun “automatismo” di stampo surrealista come qualcuno vuoi sostenere. Vi è l’interesse continuo ad ossigenarsi dentro l’apparente flusso caotico delle immagini, per poi “decantarle sinteticamente grazie all’utilizzo di una tecnica immediata e veloce com’ è l’acquerello e la china. Nelle opere di qualche anno dopo, sembra che l’artista tedesco abbia la necessità di “frantumare” le ricerche favolistiche precedenti e indirizzarsi verso una situazione più fluida e informe, sfilacciando il sogno che diventa così molto impalpabile. Si può notare tutto ciò nell’opera “Ciel Sombre” del 1946 o nella “Composition in Hellgrun-Rot” del 1947-48. Dopo la fine della 2a guerra mondiale qualcosa non funziona più come prima, la delusione e il malessere prendono il posto del sogno e della favola. L’artista sembra attanagliato da una profonda voglia di creare; è il periodo in cui le città e i velieri immaginari popolati da strani esseri filiformi, vengono assorbiti e ricacciati dentro il magma della materia. Nell’intensa stagione pittorica tra il 46 e il 51 (anno della morte) sposta l’interesse dal piccolo formato degli acquerelli precedenti alla creazione di grandi tele ricoperte di chiazze di colore e di esili segni. Wols, non può considerarsi semplicemente un artista informale non cè in lui nessuna dissoluzione della forma. La sua pittura non condivide l’informale come ‘balbettio”, ma come strumento utile di conoscenza, come afferma giustamente G. Dorfles: “trova in Wols una ragion d’essere assai più profonda: quella di scomporre la materia, di distruggere il segno appunto per poter ritrovare un segno più genuino, una materia più idonea alla strutturazione di un’arte ancora in divenire”. Quindi evento poetico che si macera e si rigenera dentro le piaghe della materia al fine di “ridefinire” una possibile altra forma. Il segno, nelle ultime opere diventa l’unico strumento per scandagliare “il malessere dell’esistenza”; non più frammenti di cose sognate, ma brandelli di materia solcata da tratti di segno che definiscono una situazione precaria dove lo sconforto si tramuta in groviglio e anche in prigione.
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-Willy Varlin: “L’ultimo ribelle”
Capita sempre più, di rado visitare una mostra di notevole interesse come quella di Varlin che vedremo dal 10 maggio al 19 luglio alla Villa Malpensata di Lugano’. Con questa importante retrospettiva la Svizzera onora un figlio solitario che aveva creduto di perdere. Willy Guggenheim, iu arte Varlin, era nato a Zurigo il 16 marzo del 1900, aveva vissuto a Parigi per circa trent’anni, nel 1963 s’era trasferito definitivamente in una baita di un villaggio grigionese, Bondo, in Vai Bregaglia, dove rimase fino alla morte (30 Ottobre 1977). Artista solitario, distante dalle lusinghe mercantili,visse gli ultimi anni della sua vita pressoché nei silenzio, da perfetto sconosciuto. Nonostante le diverse mostre avutosi grazie all’interessamento “amorevole” di. Giovanni Testori, di Max Frisch e di. Friedrich Durrenmatt che si erano adoperati, affinchè l’artista Svizzero ottenesse quei riconoscimenti che gli spettavano. Villy è ancora poco conosciuto al grande pubblico dei non addetti ai lavori, proprio perché i suoi guizzi creativi, le sue invenzioni sempre nuove e originali, non hanno facilitato la conoscenza del1’artista. Il pittore Svizzero non amava “ripetersi”( ripetizione intesa come limitazione o involuzione creativa non poteva contare soltanto su una cifra di riconoscimento, sapeva che doveva proseguire nel suo viaggio solitario. Così ha continuato “imperterrito” a dipingere, aiutato da pochi amici, per poi, al primo tremore, disperdersi dentro la nebbia della sua amata Bondo. Sicuramente, Varlin è uno dei casi più emblematici di artista disconosciuto e non compreso. Raffaele De Grada si chiede: come mai certi artisti (per la verità pochi), riescono a resistere ai richiami dell’effimero e delle mode e a produrre opere tanto affascinanti e durevoli da determinare da questi luoghi separati il corso dell’arte per un lungo periodo, forse per sempre, mentre altri artisti che sembrano “centrali” al sistema dell’arte, col tempo si ritrovano in periferia, da non essere più riconsiderati. Inoltre, si crede, che gli artisti danno il meglio di se quando sono ancora giovani, con la vecchiaia, spesso, si ripetono come in una sorta di manierismo personale. A Varlin, questo non è accaduto, anzi, proprio negli ultimi anni era riuscito a dipingere i suoi quadri più belli e interessanti, accomunando le esperienze precedenti e consolidandoli in un “unicum”, in una poetica di grande spessore e di inaspettata vitalità. Willy aveva vissuto da “autentico ribelle” a contatto con la natura pura che gli permetteva di ossigenarsi di vera creatività; a volte esplosiva, dove il brivido dell’invenzione suggeriva lavori di grande emozione, come nel nudo sdraiato sul letto di ferro o l’apparizione di un volto dal ghigno ironico e beffardo. Effettivamente, quest’arte non soddisfa le categorie del piacere disinteressato; Varlin da fastidio, perchè è imprevedibile e inclassificabile, sempre al limite di uno stile, con la deformazione e la carica psicologica che cambia “ripetutamente” la pelle alle cose. Tanti vorrebbero ignorarlo, non possono. Scrive G. Testori: Tu sei stato uno degli ultimi che hanno giocato la partita della vita come era sempre accaduto ai grandi ribelli,veri ribelli;e come non accade più ai falsi e indecenti pseudo ribelli. Il pittore Svizzero si pone di fronte al reale da “eremita”, con lo scopo essenziale di riabilitare tutto ciò che la nostra società ritiene relitto o reietto. Un eremita ribelle, che prova a far conoscere la triste condizione dell’uomo contemporaneo; di un uomo che ha perso “l’eroicità” e si trova a vagare in condizione di perenne disagio,senza punti di riferimento certi, senza una destinazione possibile. Uno strano mondo quello creato da Varlin, con i ritratti e i personaggi disfatti, con i corpi terribilmente stravolti e tormentati; come nella bellissima opera “Nudo di Leni” del 1975, dove il martirio sembra che abbia preso definitivamente possesso della povera carne maledettamente corrotta, che la luce fredda e vivida di Bondo trasforma e disintegra in polvere. Uno strano sortilegio che diventa brivido,vertigine e fugace apparizione.
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-Mimmo Paladino:I fantasmi dell’ultimo Paladino
La galleria Arte 92 di Milano, dopo aver organizzato importanti esposizioni dedicate ad artisti ormai storici come Masson, Mathieu, Soto, Veronesi, Rainer e Pino Pascali, questa volta propone 18 opere del 1989 e 1990 di Minimo Paladino. L’artista, nato nel 1948 a Paduli (Benevento), ha iniziato la sua avventura artistica con opere concettuali esposte per la prima volta nel 1969 alle Studio Oggetto di Caserta. Opere, nate dal contatto con la situazione sperimentale degli anni 60 in Campania; una situazione carica di nuovi stimoli e voglia di rinnovamento e quindi, un vero laboratorio di ricerca, grazie anche all’apporto della rivista “Linea Sud”, che sotto la direzione di Luca (Luigi Castellani) e la collaborazione di Persico, Martini, Bugli e Caruso, a partire dal 63, tentò di prospettare nuove ipotesi di lavoro. Proprio in questa direzione Paladino indirizza i suoi primi lavori . Tuttavia, già nei primi anni di lavoro sente il bisogno, sempre più urgente di approdare a una diversa dimensione creativa dove il disegno, la manualità e il piacere della pittura diventano elemento modellante di nuove visioni. Così, dopo aver sperimentato l’immediatezza e la libertà del mezzo fotografico ora , ricerca l’emotività e l’essenzialità dell’immagine e una propria individualità creativa. Gli anni della formazione si chiudono profeticamente con una serie di opere dal titolo:”Mi ritiro a dipingere un quadro”. Come ha dichiarato lo stesso Paladino,”il titolo era più importante dell’opera, diveniva dichiarazione e bisogno primario di ritirarsi a dipingere dei quadri,a cercare un modo di essere diverso nelle cose”. L’artista beneventano non avverte più il significato sociale di fare un quadro, oramai accetta il ruolo dell’artista solitario “fuori del contesto sociale”, forse alla ricerca di una situazione totalmente libera da qualunque condizionamento. Il suo lavoro pittorico nasce essenzialmente dall’intreccio di riferimenti astratti e figurativi, dall’appropriazione e dallo sconfinamento di differenti matrici di lavoro (Klee, Kandinsky , Matisse). Tutta l’opera di Paladino vive una situazione transitoria; entra nello spazio della pittura e esce per incarnarsi dentro lo spazio della realtà. Egli stesso ci confida: ”credo che l’opera d’arte sia enigmatica, complessa e completa quando riesce a contenere molti dettagli che si svelano con il tempo e comunque non si svelano mai completamente”. Infatti, nel suo lavoro non vi è alcun tentativo di evidenziare una trama di racconto, l’esteriorità delle cose, ma vuole vivere l’evento in una dimensione molto più profonda e sospesa . Paladino, costruendo situazioni volutamente non definite, evita che la figurazione diventi descrizione e puro riporto. Le sue proiezioni interne-esterne tra dato bidimensionale e volumetria tridimensionale, tra geometria e figurazione nascono dall’esigenza di dare voce alle “emergenze interiori”, di procedere per frammenti pittorici e per lacerti raggrumati di realtà. Nella sua pittura viene messo in discussione il rapporto spaziale di superficie-sfondo, la consistenza dell’immagine, il senso della precarietà e anche una certa “ironia” che diventa spesso provocazione. Paladino ricerca “la non riconoscibilità”, gli piace giocare questo ruolo sottile, nel tentativo di capovolgere continuamente le situazioni al fine di trovare un modo di essere diverso nelle cose. Secondo lui, ”il vero problema di questo momento è quello di tentare di creare dei trabocchetti linguistici, parchè è l’unico modo per sfuggire, per non esserci, per cercare di essere sempre in un altro posto pur essendoci”. Insomma, Paladino ha bisogno che i fantasmi del pensiero emergano e occupino zone di spazio pittorico, che i personaggi o i frammenti dell’immagine vaghino dentro i luoghi impalpabili della visione. Nel suo lavoro, ciò ch’è superfluo è destinato a scomparire; per esempio, un tavolo risulta rappresentato con una sola gamba proprio perché l’immagine dell’oggetto rappresentato si “sorregge” per equilibri differenti rispetto alla forza di gravità di un vero tavolo. L’artista campano ha la capacità di proiettare il suo immaginario dentro un sorta di specchio che deforma, appiattisce e stravolge l’apparenza delle cose; a volte lo sviluppo logico spaziale dell’opera si presenta interrotto anche da elementi tridimensionali che vanno a sistemarsi dentro la pittura,e persino, al di fuori del comune spazio pittorico. Quella di Paladino è certamente una complessa figurazione che si alimenta di precari e inconsistenti frammenti di senso, dove il tempo, carico di mistero, sembra deformare le immagini, accumulandole in una zona intransitabile fino a dissolverle nel nulla. E’ proprio nella “frammentarietà” e nella precarietà della visione che Paladino ci rivela la dualità, la “scissione dell’io” e il grande vuoto dell’uomo d’oggi. Tutto ciò è dato dal rispecchiamento dell’io dell’artista nelle immagini di scavo esistenziale; l’io scisso, rilevato come flusso e”come traccia archeologica della memoria” non trovando l’unitarietà della visione si carica di ossessione, si sdoppia in tante diverse figure e alla fine vaga impavido alla ricerca di qualche significato ancora non completamente svelato. Una pittura, quindi, carica di suggestioni, intenta a evidenziare il mistero della rappresentazione - come dice Roberto Daolio- “ il mistero scavato e portato in superficie”.
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-Mattia Moreni: La regressione délla specie effettiva ….Perchè?
Dopo le personali del 1987 e del 1994, Mattia Moreni è ritornato a Milano, alla Galleria Morone 6, con una mostra particolare dal titolo ”Marilù muore, ciao...”. Nato nel l920 a Pavia, dopo aver vissuto a Torino e Antibes (1949-50), a Frascati (fino al 1954), a Bologna (tra il 1955 e il 1956), per dieci armi si trasferisce a Parigi (1957-66), fino a decidere di stabilirsi definitivamente, (verso la fine del 1966), nel podere delle Calbane Vecchie, a Brisighella di Romagna. Da autentico irrequieto, nella vita come nell’arte, Moreni è stato capace di continui cambiamenti, seguendo una sua logica e un modo di fare del tutto personale, fino ad approdare a queste ultime opere esposte a Milano all’età di quasi 76 anni. Un artista, in genere, all’età di Moreni, ha ormai detto tutto; vive il successo dei suoi migliori risultati ripetendo ciò che ha fatto precedentemente. Ciò non è però il caso di Mattia Moreni, perché più passa il tempo e più il suo lavoro risulta interessante e nuovo. Di sicuro è uno dei pochi artisti, dopo F. Bacon, ancora lucidi nel marasma anonimo e decadente della scena internazionale dell’arte. Le prime esperienze risalgono al 1948, interessato come tanti artisti della sua generazione alla sintassi post-cubista e astratta. Verso il 52-53 incomincia a definire nella sua pittura una sorta di espressionismo solare, come afferma Tapiè,”in cui il cerchio diventa sole mentre il segno astratto anche cespuglio e collina”. Dipinge opere come “L’urlo del sole e dell’uomo dietro la staccionata”, del 1954; “Colpo di vento” del 1955; “Un cielo attivo, “Vacca aperta”, del 1957. Ormai, la natura ha preso il posto della geometria. Inoltre, con le opere dei primi anni’60 la superficie pittorica si carica di nuovi significati; diventa annunciazione e ferita, ”Carne come paesaggio”; “Ancora un’immagine quasi travolta”, del 1960. Sembra che non esista più per Moreni una netta distinzione tra energia atmosferica e organica. Crea, così, le prime immagini segnaletiche “Immagine come un segnale”, del 1961, “Cielo e cartello come apparizione”, del 1962. Il periodo dei “segnali” dura fino al 64 per poi approdare alle “angurie”, prendendo spunto da un cartello di campagna che segnalava la vendita delle angurie. A metà degli anni 60, la fetta di anguria si trasforma in un oggetto e in un’ ossessiva e inquieta visionarietà, le angurie trasudano di energia cosmica, si ingrossano fino a scoppiare “I semi snaturalizzati impazziscono e tentano inutilmente di. abbandonare l’anguria.. è difficile fare impazzire i semi nel cielo di gas velenosi, è difficile fare l’anguria”. , del 1975. Nascono opere di forte impatto, come “Anguria americana assassinata sul campo-pelliccia Rosa”, 1969; “Un’anguria americana sognata e come una farfalla notturna sul campo-pelliccia-capra” ,1970; o “Ah quell’anguria anarchica che si è messa le mutande, o dell’assurdità”, del 1972, che evidenziano forme organiche vaginali con innesti di peluria vegetale(prato), che ci rimanda ambiguamente a brani di peluria naturale. Dopo gli anni dei cartelli e dei segnali, nel 1983-84 nasce il ciclo delle pattumiere e dei tubi (1984), delle lampadine (1984-85), delle geometrie indisciplinate (1985-86). Spesso l’oggetto naturale (l’anguria) va a confrontarsi con oggetti di uso domestico come la pattumiera o il televisore. Ne viene fuori una sorta di innesto “terapeutico” tra il dato naturale e l’artificiale, quasi a cercare la sintesi e la consistenza di una possibile relazione. Si determina una situazione sospesa tra natura e cultura, tra organicità e tecnologia, tra speranza di un nuovo futuro e rimpianto di aver perso tutto. Moreni dipinge per trovare un senso nuovo alla pittura e per evidenziare la condizione emblematica dell’uomo in questo travagliato momento storico. Sarà la natura organica ad annientare la tecnologia o sarà la tecnologia a distruggere definitivamente la natura? Sono questi i dubbi che ci pone da un pò di tempo l’artista. Moreni è essenzialmente un pessimista, esprime tragicamente le sue ossessioni, il senso del disfacimento e dell’urlo, convinto, nonostante i suoi momentanei dubbi (perchè?), che alla fine la tecnologia annienterà e ingoierà la natura e anche l‘uomo, o ciò che rimarrà dell’uomo. Ci chiediamo : l’uomo sarà in grado di prendere coscienza dei suoi interminabili problemi o continuerà a percorrere quest’affannosa corsa verso il nulla e il niente? Di certo, Moreni coltiva certi inconsueti innesti di pensiero, forse per avvertire e annunciare la situazione precaria in cui ci siamo arenati. Anche le ricerche scientifiche di questi ultimi tempi ci prospettano un uomo regressivo e involutivo, come se stesse ripercorrendo a ritroso la scala evoluzionistica , tracciata da Darwin; vediamo il segno di questa regressione involutiva nei cromosomi. Moreni è convinto che si può ipotizzare, dopo una evoluzione, una marcia a ritroso verso una involuzione e regressione della specie umana; in fondo -confessa Moreni- bisogna capire che la. differenza di cromosomi tra una scimmia e un uomo e soltanto dell’1% . Basta poco per ritrovare il”disordine funzionale” che. modifica un equilibrio genetico e ci proietta verso la mutazione, e la regressione incontrollata, della specie umana. Marilù, come da tempo Moreni chiama la vulva., svelata nella emblematica presenza, -afferma E. Crispolti- “diventa luogo emblematico d.ell’avvertibile decisiva mutazione che sta avvenendo”. Moreni crede che una tale ossessione è condizione essenziale di ricerca. Negli ultimi tempi il richiamo più ricorrente è stato destinato al computer (conbuter, come a volte lo chiama Moreni), alla protesi tecnologica, alla tecnologia elettronica, all’amore virtuale, alla situazione Punk (Punk, avverte Moreni, è una parola come un’altra per dire che non abbiamo niente da difendere). E’ esemplare l’opera “Una “Marilù per Mantegna......”, realizzata nel 1990, di una corporeità alienata, stravolta e nello stesso tempo indifesa. Secondo Moreni,”l’unico linguaggio dell’avanguardia è l’elettronico”. Di sicuro, la tecnologia elettronica in avanzata, riattiverà l’umanoide regredito attraverso l’‘innesto di protesi computerizzati. L’uomo, da tempo, fa uso di protesi (cuore, rene) e di leve bioniche per le braccia e le gambe. Ormai, quasi tutto è sostituibile. Opere come “ L’umanoide allineato all’elettronica”; “ L’ultima apparizione con conbuter”, “L’identikit ratificato”, del 1993, oppure, “ Lo speleologo vaginale con computer, contro l’ingiustizia genetica, verifica l’atrofia delle ovaie”, del 1993-94, evidenziano una forte commistione tra naturalità e artificiosità fino alla trasmutazione del dato naturale al virtuale degli ultimi lavori dal titolo emblematico: “ Marilù tecnologica ha fatto stop”; “L’esibizione Punk per l’amore virtuale….”, opere eseguite tutte nel 1994. Anche in queste ultime opere, l’artista evidenzia una sorta di intensa energia panica della natura, pregna di pulsioni molto forti, con innesti di brani di organicità sconvolta generati da quel sofferto senso catastrofico ch’è capace di trasformare tutto ciò che trova, condensandolo definitivamente in una realtà “innaturale e artificata”. Viviamo una situazione di un “ medioevo tutto nostro tra rinascimento e modernità che non ha ancora luogo”, dove la mutazione è regressione, la naturalità anche virtualità; di certo, l’ultima tragica stagione della specie umana.
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-Max Huber: La pittura formato Max
Il Museo d’arte di Mendrisio, al decimo anno di attività, dopo diverse mostre di grande qualità (Arp, Klee, issier,Tobey e Braque), finalmente organizza una mostra retrospettiva dedicata a Max Huber, pittore, con circa 150 opere tra disegni, pastelli,gonache e collage. Con questa mostra si tenta di far conoscere l’attività pittorica di Max Huber, sicuramente meno nota da quella di grande grafico internazionale. Nato a Baar nel 1919, i suoi interessi si sono subito indirizzati verso il campo grafico,la fotografia e la pittura , che rimangono per tutti i 50 anni di attività in stretta connessione e in costante sviluppo. Max inizia l’attività pittorica giovanissimo (1935), con esperienze figurative prettamente accademiche.Entra subito in contatto con artisti di grande interesse culturale come Max Bill, Bruno Munari, Luigi Veronesi. Tuttavia, dal 1941 al 1943 lavora sulla figurazione realistica e sull’astrazione geometrica, quasi come un bisogno incontenibile di abilità e invenzione, di sapienza tecnica e voglia di ricerca. Verso il 1943-1944 realizza alcune opere come “Utopia” e “Aviation”, in cui frammenti figurativi di realtà, di timbro surrealista (la chiocciola, il pipistrello,il teschio,l’aeroplano,la carriola), vengono ad interferire con geometrie elementari elaborate precedentemente, in una sorta di continua osmosi.Huber, da autentico grafico, lavora sul metodo progettuale, come del resto fanno i suoi amici Max Bill o Moholy-Nagy; non fa differenze tra figurazione e geometria, tra lavoro grafico e esecuzione pittorica. Non si pone problemi a fare contemporaneamente pittura figurativa e astrazione; non si spaventa all’idea di assemblare residui di realtà con geometrie allo stato embrionale. L’unico desiderio che ha il giovane Max è capire subito “che fare”; deve per forza far interagire le due facce della stessa medaglia e trovare una soluzione. Sicuramente la situazione di riflessione temporanea, gli serve a Huber per capire la vera direttrice del suo lavoro futuro, infatti, dopo il 1945, il lavoro si fa chiaro, definito, lucido; incomincia a realizzare composizioni con semplici geometrie in movimento, con colori primari e secondari sospesi su fondali monocromi, per poi approdare a risultati sempre più convincenti, elaborando una ricerca personale di grande intensità e consolidando, sempre più, una sua precisa collocazione nel panorama artistico contemporaneo. Negli ultimi anni, il lavoro di Max si fa ancora più complesso; alla struttura bidimensionale chiaramente a prospettica, contrappone una strutturazione ortogonale di verticali e orizzontali, con una sorta di occultamento della superficie, una suddivisione del piano dell’opera a tasselli, una scansione tonale dove il colore si fa luce, (sviluppo di un colore puro ad un altro traverso una scala di diverse tinte intermedie). Quelle che elabora Huber sono forme inoggettive di colore, che sembrano sospese e costrette a galleggiare nello spazio della superficie, in un frenetico movimento di elementi, che con leggerezza si modificano all’interno del campo visivo. Una visione che rifiuta la dimensione statica e la forma definita delle cose, che preferisce vivere una fase transitoria, momentanea, tutta impregnata di “immaterialità lievitante” che dilaga secondo una logica progettuale, che si fa spazio, luce e senso di rappresentazione.
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-Pino Pascali: Il teatro dell’immagine
Dopo la mostra organizzata sei anni fa al PAC, ritornano a Milano alcuni lavori di Pino Pascali,ospitate alla galleria Arte 92 di via Moneta.Una piccola mostra ben organizzata con alcune opere interessanti dell’artista pugliese, che coprono un arco di tempo breve,ma abbastanza significativo(64—68), prima dell’improvvisa morte avvenuta a Roma nel 1968,a causa di un tragico incidente all’età di soli 33 anni.Sono in mostra la serie delle“Armi”e del cannone “Bella ciao” del 1965, “Il ponte” di lana ed acciaio del 1968, la “Decapitazione delle giraffe” del 1966, inoltre, sono documentati i cicli delle “Sculture bianche” e degli “Elementi della natura”. Pino Pascali era nato nel 1935 a Polignano a Mare, nonostante la sua giovane età, nel 1968 era già un’artista abbastanza conosciuto e aggiornato. Negli ultimi anni, sempre più spesso,lavorava con forme volutamente ingigantite utilizzando i materiali che lo interessavano. Non desiderava utilizzare una tecnica prestabilita, ma cercava volta per volta varie possibilità di intervento, suggerite soprattutto dalle suggestioni immediate degli eventi vissuti.In una intervista su”Marcatre”del maggio 1968, alcuni mesi prima di morire aveva dichiarato:“La tecnica è la mia vita,ogni volta cambia” e aggiungeva “appena hai fatto una cosa, la cosa è finita”.In quella occasione,alla domanda di Marisa Volpi Orlandini: “Che valore dai alla tecnica del tuo lavoro,che cosa spinge a lavorare con i tuoi materiali“primari”, aveva risposto declamando una insolita filastrocca in dialetto pugliese: “Evviv a Carlo Magno ch va-n dall’acque e non s’abbagne ch va-n do fuek e non s’abbrusce ch va-n du camp e’n se sprtuse “ Questa filastrocca apparentemente senza significato, ci rivela invece il vero senso del fantastico e la giusta chiave di lettura del suo lavoro, convinto che non bisognava chiudersi in formule di lavoro già sperimentate ma tutto doveva essere acqua, vita, gioco e ricerca spontanea; in fondo cercava di fare quello che gli piaceva, questo era l’unico sistema che conosceva e che gli andava bene. Nelle sue mani, qualsiasi materiale, dopo averlo sottratto all’evidenza ovvia del quotidiano diventava forma e quindi immagine prepotente, la finzione o l’incanto trovavano così la giusta dimensione per emergere e materializzarsi in atmosfere da favola, in piacevoli “teatrini dell’immagine” dove la fantasia era capace di trasformare l’ironia in sogno e modellare magicamente i pensieri in strane favole.
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-Roberto Sanesi: I frammenti “insostanziali”della scrittura
Si è conclusa la mostra personale di Roberto Sanesi alla Galleria Annunciata di Milano. Scrittore, traduttore e critico di grande interesse. Sanesi, non è semplicemente un poeta visivo, ma soprattutto un poeta “autentico”, interessato allo scandaglio di nuove forme di espressione. e quindi avviato a sondare le parti e i frammenti di una possibile “nuova scrittura”. Durante questi ultimi decenni è passato dalla lettura composta a diversi livelli, quasi stratificata, all’attuale “destrutturazione” della parola. Nel 1975 confessava ”Lo scrivere non è semplicemente comunicare, trasporre o tradurre, qualcosa che esisterebbe a priori nello scrivente, ma seguire, attrarre, distrarre, dislocare cancellare, riprendere, ecc. ciò che potremmo definire forse un materiale informe che si chiarisce, si compone, nel suo stesso farsi, durante, fino ad un risultato che è una scelta, tanto casuale quanto soggettiva, tra altre scelte possibili….” . L’interesse di Sanesi non avviene verso la pittura, come tanti poeti visivi della sua generazione, ma dentro la poesia, che si carica di nuovi apporti e di inaspettati significati. Una scrittura “poetica” che rifiuta la normale descrizione e desidera vivere l’immediatezza, disseminandosi, senza un apparente senso logico nello spazio non definito della superficie. L’autore frequenta il concetto di assenza, i segni affiorano per caso, come comparse “momentanee”, in uno spazio anemico che diventa il luogo dove accade di tutto; ad. una emersione corrisponde una immersione profonda della parola, in un movimento continuo di elementi che dilagano e dialogano, secondo una logica intersa non definita. Sembra di poter leggere in questi ultimi lavori un senso di incertezza, di strano stupore. Sono, in definitiva, mappe mentali dai segni “insostanziali”, dal colore vellutato impalpabile che stanno sulla soglia della dissoluzione, in attesa di una definizione volutamente non svelata.
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-Ruggero Maggi : L’arte tra natura, tecnologia e messaggi planetari.
Si è conclusa recentemente la mostra personale di Ruggero Maggi, al Centro Portofranco di Livorno, con vere e proprie mini-installazioni, composte da tubi al neon, metallo e legno, eseguiti a partire dal 1989, fino alle più recenti opere dove il concetto “Artificiale/Naturale” assume un ruolo predominante e caratterizza gli ultimi felici esiti del suo lavoro. Torinese di nascita, Milanese di adozione, figlio del mondo, Ruggero Maggi, vive intensamente il suo ruolo d’artista e di uomo libero; un outsider non allineato, al punto che risulta difficile catalogarlo. Incomincia la sua attività di artista agli inizi degli anni 70 con lavori giovanili, caratterizzati da un certo surrealismo e con l’inserimento, sempre più insistente, di elementi di realtà che la visione, volutamente, non riesce ad assorbire. Con il passare degli anni, questa immissione di elementi “devianti” all’interno dell’opera diventa sempre più evidente, in un rapporto di intensa “osmosi”, dove gli elementi del passato (il legno, la pietra, il fossile), convivono con elementi tecnologici (tubi al neon, plexiglass, laser), in una sorta di”sincronismo concettuale”ed emozionale.
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-Jorrit Tornquist: La parte dell’occhio
Si è conclusa da poco la mostra personale di Jorrit Tornquist alla Galleria Arte Struktura di Milano, con una serie di opere che vanno dal 1959 al 1994. Praticamente 35 anni di intensa e sofferta ricerca tesa ad indagare sul versante inoggettivo della visione e a definire “la pelle delle cose”, sviluppando interessanti analogie e similitudini con l’organico e il mondo naturale Nato a Graz nel 1938, ma milanese di adozione, dopo aver studiato architettura al Politecnico di Graz, nel 59 si è dedicato completamente allo studio scientifico del colore, per approdare ad una nuova pittura dove la reazione percettiva e emotiva del fruitore assume un ruolo fondamentale e prioritario. L’utilizzo rigoroso dei materiali e la sapiente conoscenza dei meccanismi della percezione ha consentito all’artista austriaco di definire una rappresentazione percettiva”molto mutevole”che vive dentro il flusso impalpabile del colore per divenire spazio e essenza immateriale . Nel 76 scriveva: “vivere è sentire la vita dentro se stessi; è essere coinvolti in un incessante susseguirsi di processi, di fenomeni, di mutamenti dove l’ininterrotta continuità del trasformare e del trasformarsi consente di vivere sensazioni”. Tornquist, negli ultimi anni ha ripreso, con più vigore le ricerche sviluppate precedentemente incentrate soprattutto sul comportamento percettivo. Di certo lo studio dei meccanismi interni che generano e regolano la percezione gli ha fornito gli stimoli e anche i mezzi indispensabili per creare insolite ‘trappole visive” non perfettamente definite, e nell’incertezza, creare una partecipazione più attiva e emotiva all’evento poetico.
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-Paolo Barrile: “Message Earth”
E’ da diversi anni che Paolo Barrile lavora al progetto “Messaggio Terra”. Infatti, ha iniziato nel 1969 con la raccolta delle prime terre. Nel 1977, raggruppa per la prima volta in una sola opera terre di quattro differenti Continenti. Nel 1978, compie la prima catalogazione delle terre sino allora raccolte . Dopo la pubblicazione del primo libro Messaggio Terra”,nel dicembre del 1980, pubblica “Il secondo libro di Messaggio Terra” 1992. Artista e scrittore polemico, tra il 1982 e il 1986, produce e mette in commercio anche come ambulante, espositori di terre con certificato di autenticità. Il curatore di queste “azioni di arte amplificata”, utilizzando la mail arte è riuscito a interessare artisti di varie tendenze e latitudini. come Xante Battaglia, Betty Danon, Ruggero Maggi, G. Bonanno, Stanislao Pacus, Paolo Scirpa, Mayumi Shozo,William Xerra, e persino un grande critico internazionale come Pierre Restany. Un progetto internazionale con artisti di 61 paesi che vive il confronto e la circolarità tra le diverse ipotesi di lavoro in risposta all’isolamento che ogni giorno viviamo. Una “contaminazione” che si alimenta al di fuori di mode e di rottami omologati.
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-Antonio Freiles: Come l’alchimia diventa pittura
Dopo l’esposizione di qualche anno fa, è stata organizzata alla Galleria 2RC di Milano un’altra personale di Antonio Freiles, dal titolo “Chartae”. Il giovane artista, da un pò di anni lavora insistentemente sulla riflessione del fare e sulla sperimentazione che va verso la “sintesi alchemica” fatta di ricerca e anche di manualità. In Freiles, non esiste la preparazione della superficie e la realizzazione dell’opera; sono la stessa cosa . Egli ha bisogno di costruirsi da solo il suo supporto al fine di definire il suo spazio operativo. Utilizzando un suo tradizionale procedimento antico, crea l’opera, stratificando l’impasto di cellulosa pura su un telaio a griglia e contemporaneamente inglobando frammenti di altra cellulosa impregnata di colore, procedendo per sgocciolamento di essenze naturali e sovrapposizione di cellulosa, quindi, per sedimentazione e stratificazione della materiali. Nonostante il materiale a volte pesante, i lavori di Freiles sembrano leggeri, perchè l’essenza dell’opera vive lo stato sospeso e magico dall’incanto, della rivelazione che diventa “dolce apparizione”. Qualche anno fa, l’artista siciliano creava opere geometriche dall’impianto compositivo più rigido e statico, come l’opera “l’Eminentia”, esposta nel 1981 i una rassegna alla Galleria D’arte Contemporanea di Siracusa o le opere esposte nel 1982 alla Biennale di Venezia. In queste ultime “Cartae” si ha 1’impressione che Freiles voglia mettere ordine al caos, che spesso sconfina dirompente da una parte all’altra della superficie, in modo ossessivo, seguendo un ordine tutto interno, nel momento stesso che si crea l’opera . Vi è in tutto ciò, una sorta di strana fluidità operativa, più razionale rispetto alle opere precedenti. Questo senso di stupore e di magia, affiora, anche, in alcune carte, che diventano per strano sortilegio libri dalle pagine impregnate di oscuro mistero, dove la lettura non è più affidata al dato tipografico ma ai colori naturali che si insinuano e penetrano dentro la candida cellulosa, carichi di nascoste memorie e di oscuri presagi.
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-Mario Raciti: Dalle Mitologie ai Misteri
Mario Raciti ritorna a Milano con due personali, rispettivamente, alla Galleria Morone con i lavori del 1983 al 1992 (mitologie), e alla Galleria Spazio Temporaneo con i lavori recenti del 1993/94 (misteri). Sono in mostra gli ultimi 12 anni di lavoro di questo artista che lavora sul crinale impalpabile della figurazione, dove le immagini vivono la dimensione precaria e sospesa dell’apparire, in attesa di una possibile e più concreta definizione. Marco Valsecchi, nel lontano 1978, aveva scritto: Lo spazio bianco in cui avvengono i suoi eventi immaginari, non è un progressivo nullificarsi; al contrario è un drammatico spazio testimoniale in cui il pittore accerta la situazione attuale del pensiero e dell’esistenza ormai sospesi a questo fragile balenare di coscienza e di aspirazioni. Il bianco vale come sudario del vivere e le crepe repentine di una certezza che appena emerge e insolentisce tutti gli schemi delle labili metamorfosi”. Una pittura, ancora oggi, che riesce solo a “darsi come evento” e nel farsi e disfarsi trova il desiderio di svelare i nascosti misteri della nostra esistenza. La pittura di Raciti vive la dimensione favolistica , ma non diventa mai racconto o illustrazione. I suoi segni, sono larve di possibili personaggi, presenze insostanziali che nascono con il destino ingrato di non potersi formare completamente, quasi delle crisalidi che non riescono a crescere e trasformarsi e che non diventeranno mai adulte. Segni che rimangono, quindi, allo stato embrionale, in una messa a fuoco spaziale molto labile. Raciti sa condurre i suoi segni fino al suo limite della concretizzazione per poi, al momento giusto, abbandonarli nel vuoto anemico e profondo del suo spazio, come bisogno urgente di purificare la fragile esistenza che nell’attimo dell’evento riemerge per diventare apparizione ma anche mistero.
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-Idetoshi Nagasawa: Tra natura e artificio
E’ la terza volta che Idetoshi Nagasawa espone i suoi lavori alla galleria Valeria Belvedere in via Senato 6 a Milano, dopo quelle del 1988 e del 1990. Era arrivato a Milano alla fine degli anni 60, dopo un avventuroso viaggio in bicicletta attraverso l’Asia, e si era stabilito a Sesto San Giovanni. Diversi anni fa, Flaminio Gualdoni, scrivendo per Nagasawa, si lamentava dello sparuto numero di scultori e dell’ancora più scarsa considerazione in cui erano tenuti. Sembra che la situazione sia decisamente cambiata. Nagasawa ora è giustamente apprezzato e occupa un posto di primissimo piano nel panorama dell’arte contemporanea. Lo avevo conosciuto alla Biennale di Venezia del 1982, dove esponeva opere di forte impatto e di grande fascino, come il “Pozzo”,eseguito nel 1981 in bronzo e marmo o la “Barca marmorea” che fa da base ad un salice caprea pendula. Una caratteristica dello scultore Giapponese o di saper facilmente “combinare” i più disparati materiali e farne un’unica cosa, e anche di saper rimanere in bilico su nozioni nettamente contraddittorie, come l’equilibrio e lo squilibrio, l’artificiale e il naturale, la simmetria e l’asimmetria che rimangono alla base di tutto il suo lavoro. Nel 1990, Nagasawa, aveva creato tre installazioni occupando, coinvolgendo e “trasformando” le tre stanze della galleria di V. Belvedere. Lo spettatore veniva risucchiato dentro il reale spazio ambientale e obbligato a reagire alla nuova situazione. Infatti, il pavimento, i soffitti e le distanze dei muri venivano stranamente modificati dall’uso di forme e materiali che definivano nuove coordinate spaziali. Nella stanza più grande della galleria, Nagasawa aveva realizzato l’opera “Lampo”, con quattro tronchi di legno che stavano magicamente sospesi e che creavano un equilibrio precario di forme in tensione nello spazio;forme “pesanti” che si sentivano senza gravità. Il lavoro esposto alla galleria Belvedere va ricondotto a queste ultime ricerche precedenti, dove c’è l’insistente tentativo di annullare la forza di gravità utilizzando il reale peso dei materiali adoperati e facendo sentire le forme “leggere” quasi come delle piume, inoltre, creare uno stato di precario “artificio” che diventa in definitiva reale disagio, ma anche struggente apparizione.
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-Gabriele Jardini: Dall'altra parte dell'ombra
In poco tempo l’uomo è riuscito a trasformare l’ambiente in cui vive a ritmi sempre più accelerati. La distruzione delle foreste tropicali,la desertificazione,il buco dell’ozono,le piogge acide minacciano inevitabilmente la delicata struttura e il precario equilibrio,ormai la sfida ambientale coincide con la nostra stessa esistenza, a meno che non venga riscoperto e propiziato uno spirito umanistico con un sentimento morale nei confronti della natura quasi dimenticata e delle sue straordinarie possibilità. Purtroppo, la natura è stata sostituita integralmente dalla cultura, la realtà da una catasta di logori relitti tecnologici. La perdita della “totalità” ha reso il rapporto tra l’uomo e la natura assai problematico. Di sicuro, dopo il Romanticismo, il percorso dell’arte ha conosciuto una intensa accelerazione che ha bruciato rapidamente il confronto con la natura, nel fuoco di una esigenza progressiva a valersi della più assoluta libertà espressiva. Una cultura, quindi, che nasce essenzialmente dalla “scissione” e dall’armonia perduta e si esprime in un’arte “dissonante” e lontana dall’equilibrio. L’uomo contemporaneo con la tragica consapevolezza dell’esilio dalla natura e la nostalgia dell’equilibrio perduto non riesce più a essere “sentimentale”. Nel 1978, con il Manifesto del Rio Negro, Pierre Restany sentiva la necessità di chiedersi: “Quale tipo di arte, quale sistema di linguaggio può suscitare un simile ambiente? Di certo un naturalismo di tipo essenzialista che si oppone al realismo della tradizione realista. Il naturalismo implica la più grande disponibilità dell’artista e la più grande apertura snaturando il meno possibile. In fondo nello spazio-tempo della vita di un uomo, la natura è la sua misura, la sua coscienza, la sua sensibilità”. Oggi si sente il bisogno urgente di un rapporto più intenso con la natura. Monet, a differenza di tutti gli altri, aveva capito che la pittura non era solo pura percezione della natura, ma anche sensibilità e partecipazione. Solo in questi ultimi anni si nota il tentativo da parte di alcuni giovani artisti di instaurare un “rapporto nuovo” con il mondo naturale, forse per tentare di ristabilire qualche equilibrio irreparabilmente infranto o per recuperare zone di immaginario perduto. Uno di questi giovani artisti è Gabriele Jardini. L’artista, per creare ha bisogno di varcare la soglia che lo divide con la natura e ritrovarsi immerso totalmente in essa. L’artista lombardo non desidera utilizzare solo gli occhi, ma tutti i sensi, il suo stesso corpo. Jardini ha compreso che la natura, per essere veramente capita ha bisogno della partecipazione attiva e quindi il coinvolgimento e lo sprofondamento dei sensi. Entrare nella natura significa attivare un dialogo utilizzando tutte le abilità e le strategie possibili. L’artista, totalmente immerso in quella “simbiosi” di natura e sensibilità, studia l’armonia che governa la natura, in attesa di qualche suggestione, che prontamente utilizza. La realtà dell’immagine che ne viene fuori coincide perfettamente con la realtà della natura; una natura profonda, delicata, musicale, sospesa nella sottile vertigine dell’evento. Jardini non vuole più vivere dentro il vuoto della cultura della nostra società, desidera autocollocarsi in posizione critica interrogandosi sulla propria funzione d’artista e sulla necessità espressiva di utilizzare una coscienza planetaria capace di svelare le straordinarie possibilità che la natura ancora ci offre. Ormai il suo laboratorio di ricerca è la natura; quando l’artista s’insinua tra i boschi di Gerenzano o della vicina Svizzera, il suo corpo incomincia a vibrare, a tendersi, diventa egli stesso foglia, ramo, rugiada. Dentro il suo “laboratorio verde”, in rapporto al luogo, trova sempre gli stimoli adatti e le suggestioni per definire i suoi “concetti d natura”. Sono convinto che Jardini non può più fare a meno della natura, non può immaginare l’opera prima nel mondo poetico e poi nel mondo fisico; sono due cose che deve relazionare nel momento stesso ch’è a contatto diretto con il paesaggio, in stretta sintesi tra natura e creatività. Certamente, ha bisogno di sentirsi addosso gli umori della natura, l’odore della terra, i ritmi naturali. Dentro il bosco, dal contatto tra la mano, la mente e gli elementi della natura, nasce un dialogo solitario, che spinge l’artista a inconsueti gesti, come per esempio assemblare le foglie tra loro, intrecciare i rami o incollare le parti di un corpo vegetale utilizzando le spine di robinia che trova facilmente in natura. Dall’osservazione attenta dei fenomeni naturali fa nascere misteriosi segnali poetici, variazioni ritmiche cariche di silenzio che vengono disseminati nello spazio del reale. Jardini ha la capacità insolita di “sintetizzare” gli svariati elementi che trova in natura, creando installazioni molto precarie, quasi sempre soggette a distruzione; a volte basta un piccolo gesto della mano o persino un soffio leggero per rompere l’incantesimo e spegnere la poesia. Per lui è fondamentale “imitare” i processi che avvengono in natura, studiare la caduta, la concentrazione e il diradamento delle foglie; la “mimesi” diventa prerogativa essenziale per dialogare con la natura. Dall’osservazione dei meccanismi che interagiscono in natura, dall’integrazione degli elementi naturali “raccolti”, nascono le suggestioni che spingono l’artista a realizzare determinati “gesti poetici”, per esempio: dal ritrovamento di alcune pigne è nata la necessità di farle roteare sulla sabbia allo scopo di riattivare una vasta zona di superficie naturale, ottenendo impronte abbastanza precarie, la scoperta di una grande ragnatela ha persino suggerito all’artista l’innesto di una serie di fiori secchi attorno alla sua circonferenza, seguendo un ordine e un ritmo tutto musicale, per divenire una sorta di corona sospesa nel vuoto. Il lavoro di Jardini, per vivere ha bisogno di ritrovare la sospensione dell’evento, “l’altra parte dell’ombra” ovvero la parte oscura e misteriosa del reale. I suoi eventi sono, in definitiva, apparizioni di tipo visionario che vogliono creare il sortilegio e condividere l’urgente bisogno di un rapporto immediato con la natura. La capacità di voler comprendere, sentire e intervenire, sono le uniche possibilità che l’uomo contemporaneo ha ormai a disposizione per risolvere i suoi problemi; questo è quello che Jardini tenta di rivelarci