Azione critica nella cibernetica coeva.
(Segni d’automatismo)
Colgo l’occasione per quest’appuntamento espositivo annuale a Stella Cilento per tentare un aggiornamento nelle osservazioni delle espressioni artistiche attuali.
Nella maggior parte dei casi in cui visitiamo esposizioni d’arte ci limitiamo ancora a vedere l’opera, considerandolo un momento estetico fine a se stesso, il più delle volte con un atteggiamento passivo, non-intenzionale, generico, a-temporale. Nella quotidianità invece interagiamo scambiando informazioni, con tutti i sistemi tecnologici che fanno parte della realtà, e che ci sono necessari per vivere nella società. Il mondo è da vedere come un enorme interfaccia, e la connettività come nuova dinamica della socialità. La cibernetica ci svela un modo nuovo di vedere il mondo, ogni entità, sia essa biologica che tecnologica genera e scambia informazioni con l’esterno, perciò tutto è interazione e ogni azione è dialogica. Ciò ci insegna a guardare e non semplicemente a vedere. L’etimologia che definisce l’atto del guardare può essere collegata ad uno stato di guerra: “stare in guardia”, “custodire”, “vedetta”. A differenza del vedere che è una pura attività pacificata, guardare è, ben diversamente, il mezzo attraverso cui cerchi di smascherare gli inganni e le manipolazioni delle cose, ma anche delle idee sulle cose.
L’attuale trasformazione dell’universo artistico trova la sua matrice in questa nuova organizzazione, tutta coeva, della vita e della conoscenza. Le discipline umanistiche si arricchiscono dei nuovi contributi delle scienze come la fisica, la matematica, la fisiologia e la biologia e, attraverso le scoperte sui processi mentali, ci si appropria delle nuove relazioni tra corpo-mente-sensazioni-emozioni della neuro-fisiologia.
Le conoscenze tecnologiche attuali inducono, inoltre, a riflessioni sull’organizzazione del vivente e sul suo funzionamento. Queste ultime conoscenze, specie per l’invenzione di nuovi materiali e per la loro introduzione nelle fasi produttive della lavorazione di oggetti, sono di ausilio agli scienziati di ingegneria (e bio-ingegneria) dell’artificiale per riprodurre in modo sempre più similare alcuni automatismi umani.
Ciò richiede al mondo dell’arte un ripensamento sia su ciò che si intende per “fare” arte e sia su ciò che si deve intendere per storia delle organizzazioni artistiche, riunite oggi sotto il segno delle informazioni. L’opera d’arte, dopo aver trovato la propria autonomia nel secolo scorso dalle altre discipline estetico-filosofiche, letterarie, psicoanalitiche, sociologiche, ecc…, nel pensiero attuale si presenta come un soggetto, o meglio, con un proprio organismo che è autorganizzato in informazione. Per questo la formula segni d’automazione, ribadisce che l’arte tutta è da intendersi come un micro-mondo; l’artista crea una gamma di visualità che all’occhio del fruitore generano sensazioni sempre diverse che non rimandano a qualcosa d’altro, ma significano per loro stesse.
A partire da ciò, si è modificato, radicalmente, il modo di intendere le opere d’arte che indifferentemente agli ambiti a cui appartengono: letteratura, pittura, scultura, ecc…, esse sono oggi considerate bene culturale, cioè strutture cognitive iscritte nel patrimonio genetico dell’umanità.
L’opera, così intesa, è un prodotto che non solo è costituita da un organismo che va interpretato (materia) ma partecipa al mondo della vita (o della natura) ogni volta che vi è un fruitore che cerca di comprendere e di riconoscerla nella sua organizzazione linguistico-logica (o tecno-logica) per le informazioni che essa (opera) racchiude. Perciò non basta soltanto produrre un’opera ed esporla, ma importante diventa il ruolo del fruitore, giacché tutto è da intendere in modo inter-attivo così come è l’intera organizzazione della società presente.
Nell’universo dell’arte contemporanea al di là di qualsiasi forma e di qualsiasi linguaggio utilizzato per costruirla, una delle attività implicite di chi l’arte la “guarda” è quella di scovare dei “segni”: punto, linea o figura a cui corrispondano, in senso proprio o figurato, i concetti di limite, posizione, direzione. Il segno ci rimanda subito ad un intervento diretto dell’uomo (dipingere, scolpire, scrivere non è altro che mani-polare mano-mettere la realtà che è capacità solo dell’uomo appunto) che modificando l’ambiente lascia delle tracce di se, in un procedimento visuale cioè di tipo artistico. Ogni artista-uomo che produce un segno, nello spazio circostante, lo fa per metterlo in relazione con ciò che è fuori, ponendolo così “in oggetto”, lo rende visibile, comunicabile. Per quanto detto fino ora, l’opera d’arte si contraddistingue per due elementi fondamentali: materia e pensiero.
La materia e il linguaggio oggi legano l’opera d’arte al tempo-spazio e allo spazio-tempo della sua elaborazione e costituzione. Un’opera è differenziata ed è riconoscibile dalle altre opere per la sua fisicità (alias, per i materiali con cui è assemblata). Il pensiero è costituito dal modo in cui l’opera si è manifestata come organizzazione o narrazione o racconto di un punto di vista.
Una visione che parte dalla cibernetica, come aggiornamento della visione sull’arte ci libera dagli pseudo-artisti che vogliono raccontarci una verità unica, essi sono in torto rispetto all’attuale che ci educa invece alle verità relative: il logos è divenuto un proliferare infinito di spazio-tempo e di ambienti. Viva la libera interpretazione. Siamo tutti critici potenziali. I critici innovativi, come si ritiene il sottoscritto, indicano le produzioni artistiche, le descrivono (interpretano o raccontano) non tanto come delle rappresentazioni, ma le trattano già come delle configurazioni artistiche.
Ecco che possiamo considerare questa collettiva come una raccolta genetica di un bagaglio di esperienze mentali. Non ci resta che guardare!
Bonanno:
Tavole pittografiche a metà tra moda e pubblicità. La ripetizione del segno è quasi l’appropriarsi di una tecnica comics svuotandola dal significato che dà la striscia e quindi dando al fruitore il compito di immaginarsi quale potrebbe essere la seconda tavola e poi la terza.
Il rimando alla traccia che compone la figura, che ha anch’essa i connotati di essere una traccia, ci pone il dubbio che quella figura sia in realtà un archetipo plasmato da un dio che forse non ha un nome ma che incute su di noi dandoci la vita.
1- Giovanni Bonanno, Accumulazione HX1 Tecnica mista, 2013.
2- Giovanni Bonanno, Accumulazione HX2 Tecnica mista, 2013.
3- Giovanni Bonanno, Accumulazione HX3 Tecnica mista, 2013.
4- Giovanni Bonanno, Accumulazione HX4 Tecnica mista, 2013.
5- Giovanni Bonanno, Accumulazione HX5 Tecnica mista, 2013.
De Caro:
Un esempio di visualità militante. Preleva estratti di realtà fotografica destrutturando l’immagine a livello biochimico, non si ferma a vedere la realtà, la guarda e vi penetra fin dentro la sua struttura molecolare. Un’azione scultoria “a togliere”, dal blocco visivo estrae pixel fino all’ultimo brandello di tessuto che delimita la tela dallo spazio esterno. Le sue opere appaiono come oggetti geometrici dotati di omotetia interna, quasi fossero dei frattali artigianali.
Paolo Tomio:
Elabora nuove forme d’arte attraverso la macchina, proponendo forme che rimandano ad una percezione altra del tecnologico e del racconto. I suoi segni non sono materialmente grafici, sono flussi di elettroni che transitano nei circuiti del computer. Tutti i vecchi e nuovi contenutismi dell’immagine, l’illustrazione e l’iconologia, vengono smentiti e relegati dove devono stare, tra i residuati dell’estetica, in quanto questi processi formali si dimostrano senza possibile dubbio non mediazioni tecniche o visualizzazioni dell’idea o del concetto, ma autonome costruzioni che sorgono, procedono e si definiscono in una loro esauriente autogenesi.
Paladini:
Sovrapposizione di piani, forme che si amplificano intersecandosi tra le diverse stratificazioni in un intarsio grumoso racchiuso in geometrie ostinate. L’equilibrio è tra la materia pittorica e il segno.
Tutto è dosato, quasi come in un laboratorio costruito su un rigore che si rifà al classico. Il linguaggio è quello della pittura; beninteso però come uno dei linguaggi possibili. Potremmo dedurne che la morte dell’arte non c’è stata e che la pittura dopotutto resisterà per molto tempo ancora.
Fusco :
Osservare, prelevare, catalogare, sezionare, porre in oggetto. Queste sono le fasi di un processo meditato oltre la velocità della vita attuale. Segni spuri, delimitano figure filiformi. Estrarre campioni di natura (quella che ancora resiste) per porla in essere. Ciò ci ricorda che l’uomo comune possiede ancora la facoltà di ascoltare il silenzio. Un pensiero ecologico e una materia organolettica, sono armi possibili contro l’Horror Pleni.
Zucchini:
Un paesaggista cibernetico. Configura estratti di realtà geo-fisiche penetrandovi fin dentro la struttura molecolare. Una matericità giustificata dall’intento di immensificare la natura, intravedendola oltre qualsiasi apparenza. Una pittura a raggi X. Uno strapaesaggio, inteso come legge di natura che è uguale in tutte le dimensioni, del macro e del micro; una parete di calce o il nucleo di un atomo di cobalto. Analogie chimiche e biologiche, tra percezione reale e macchinale.
D’Antonio:
Una figurazione algoritmica, i colori si incanalano secondo direzioni assiali, e si presentano con tonalità asettiche. La materia dell’opera è esigua, minima, rasenta una povertà di spirito che non è altro che un’attestazione di una mancanza dell’uomo attuale matematizzato nella sua logica. Oltretutto questa bidimensionalità estrema, tirata a lucido come una parete d’acciaio non lascia nessuna possibilità d’appiglio, niente tattilità, quindi niente corporalità per una società tecno-scientifica. Può essere anche un’operazione al rovescio, forse proprio questa mancanza ci stimola per reazione al desiderio di riaverla.
Afeltra:
dall’intarsio ligneo all’intarsio chimico-artificiale, ecco delle opere che hanno il gusto-tatto dell’attuale: forme di di-epossido combinate con pellicole elettrostatiche generanti una profondità al limite tra la percezione retinale e quella virtuale. Queste opere si sintetizzano a pieno nella formula “segni d’automazione”, il segno ultimo, quello impresso sull’opera è la risultante del gesto umano + la reazione chimico-organica, in cui si riequilibra il rapporto tra l’io e il mondo circostante. Lo spazio di queste opere supera le dimensioni euclidee configurando una dimensione “quarta” che si eterna in tutte le direzioni in un momento determinato. Proprio entro quest’oltre spazio i segni acquistano plasticità.
Pellini:
Una visualità urlata, le cui onde sonore frantumano la continuità di uno spazio che per quieto vivere vorremmo fosse nettamente delineato, apparentemente calmo; ma si sa che l’acqua cheta nasconde turbolenze interne. Dunque si ha l’impressione di un’identità del sé totalmente negata che per analogia rimanda ad una condizione storica di estrema precarietà. La Pellini, chiede alleanza all’ambito dei valori che si dimostrano più capaci di “resistere” alle macchine che si incontrano e delinea il suo agire nella sfera dei fenomeni organici, cellulari, biologici, ricercati ai livelli bassi, genetici, poiché sono alieni da compromessi con la sfera artificiale dei prodotti industriali. C’è solo il rischio, però nell’ostinazione a restare fedele all’organico, di scivolare nel reazionario.
Donatella Violi:
Nei paesaggi della Violi si sperimentano con grande diffusione sentimenti di solitudine e abbandono ed allo stesso tempo ansia e paure suscitate dalle relazioni interpersonali. Il successo delle chat-line e di tutte le modalità di relazione tecno mediate che attualmente imperano sono un chiaro esempio che mostrano come le persone siano apparentemente socializzate in rete, mentre in realtà possono essere profondamente chiuse in schemi mentali accomodanti ai propri bisogni narcisistici. Il Pensiero che vi si intravede è il fatto di creare forme di relazionalità basate su immagini della persona false e costruite, un po come a Valdrada, dove è importante la facciata della casa che si specchia nel lago, non ciò che vi si cela al suo interno. L’uomo non è più chi è, ma chi tenta di essere, chi finge di essere.
Gisela Robert:
In una società cibernetica in cui ogni manifestazione dell’uomo è un linguaggio generante informazioni sembra che la Robert dia un esempio genuino di sopravvivenza. La verità non è nella specializzazione ma nell’ibridazione; la sua pratica di mimesi vive “in mezzo a”, non si ancora a nessun lembo di terra, galleggia, vive in deriva perpetua. Le sue sono adesioni giustapposte di tratti che ammantano il piano-sfondo che scompare sotto il peso di miriadi di grafemi. Segni-lettere-simboli si mescolano e s’amalgamano in una fitta rete di catene semiotiche di un meta-linguaggio. Sono pagine verbo-visuali in cui la parvenza di una scrittura è un pretesto per riformulare sillabogrammi, allografi e logogrammi di un diverso sistema cognitivo. Alla semplicità superficiale dell’informazione odierna risponde con complessi logo-grammi che sono al limite della decifrabilità.
Marcello Francolini