domenica 1 maggio 2016

WHAT WOULD YOU PUT IN THE HAT OF JOSEPH BEUYS / Marcello Francolini


Presentazione

What would you put in the hat of Joseph Beuys.
Testo di Marcello Francolini, critico d’arte,  aprile 2016




L’operazione che andiamo qui a presentare è stata ideata e curata da Giovanni Bonanno, che attraverso lo Spazio Ophen Virtual Art Gallery presenta il suo progetto Internazionale di Mail Art che, a sua volta, andrà ad alimentare la Collezione Bongiani Ophen Art Museum di Salerno. Questa realtà, da anni, si muove nell’immaterialità della rete facendo dell’immanenza uno spazio concreto di riflessione.

Perché un cappello per ricordare Joseph Beuys?
Non poteva che esserci immagine più fedele di quella di un cappello per essere sicuri di esprimere parole-immagini intorno alla figura di Joseph Beuys. Considerandolo come il cappello, e non tanto un cappello, allora si potrebbe convenire che è proprio quel cappello che indossava sempre e ora non più. È ciò che resta oggi, come l’ultimo è più vero luogo del suo corpo.

“Ricoprirono il mio corpo di grasso per rigenerare il calore e l’avvolsero nel feltro per conservarlo”.

Fu così, che i Tartari lo raccolsero, accogliendolo nella loro natura medicinale, lo resuscitarono, rialzandolo a nuova vita, il 16 marzo del 1944.
Così scriveva l’artista nel suo Curriculum vitae/Curriculum delle opere, con il quale, in una sorta di mito delle origini, ricostruì una sua seconda vita, a partire dall’istante in cui tutto aveva avuto inizio. Portò da allora sempre con sé, feltro e grasso.
Ora quello stesso feltro è materiale del suo cappello, protegge il capo come protesse il corpo. Lo stesso cappello che ora mantiene in caldo i pensieri, rilascia quello stesso odore di feltro che annusò in Crimea nascendo daccapo. È così che il cappello a Beuys servì per ricordarsi di sé ovunque, qualcosa come un peso sul capo per tenerlo radicato alla terra, la sua terra propria. La sua Heimat.
Quel cappello è ciò che di più proprio c’è di Joseph Beuys.
Per comprendere quindi la sua opera e poterne dare un giudizio è assolutamente necessario non limitarla in chiave formale, ma considerarla profondamente nella sua totalità. Egli ricercava attraverso la realtà una via di accesso alla verità attraverso se stesso e la natura. Allora appare evidente che il cappello spostando l’attenzione sull’uomo, in quanto sottende ad un corpo che deve indossarlo, rimarca proprio che il pensiero dell’artista è connesso indissolubilmente alla sua vita, alla sua carne.

Perché fare una mostra sul cappello di Joseph Beuys?
Potremmo iniziare con lo specificare che più che il cappello si tratta dell’immagine del cappello, nello specifico è un cappello capovolto il cui fondo è quello spazio di pertinenza di scambio in cui gli artisti sono chiamati a entrare.
Così posto, il cappello, sembra migrare in una forma vascolare, mostrarsi per allegoria, come una giara da cui attingere o versare pensieri che allo stesso tempo sono altrui e personali (in un rimando incessante di sovrapposizioni che alla base rappresentano l’humus del comunicare con).
Ricordando la frase di Beuys più volte rimarcata, da una sua profonda conoscitrice, Lucrezia De Domizio Durini:

“Non si conserva un ricordo si ricostruisce”
Rolando Zucchini ad esempio colma proprio quel fondo, il colore che n’esce dilaga silenzioso quasi provenisse da dentro. Quasi raggiunto l’orlo, questo verde bluastro turchese si rafferma come fosse una lastra che chiude, o comunque mantiene ben coperto qualcosa che è sotto, forse il pensiero di Beuys così legato all’essenza stessa dell’artista (il cui capo conservava gelosamente nel cappello).
Su questa modalità “del riempire” segue Anna Boschi, che fa del contenitore del pensiero beuyssiano, un reliquiario con le sue opere-concetti, scaturiti proprio da quel pozzo di acque intuitive. Gino Gini, imbarca il cappello copri capo proteggi idee in un mare di parole pensieri. Wolfgang Faller, omaggia l’artista tedesco con una moltiplicazione di “Capri-Batterie” del 1985, aumentando tanti limoni quante idee è possibile ammettere. Umberto Basso lascia, come foglie sull’acqua, a galleggiare sospese le lettere dell’alfabeto. Un’immagine direi di calma in cui i significati non hanno ancora la loro forma verbale e perciò il rapporto coll’esterno passa interamente dal corpo. Andando avanti, tra le opere di Mail Art, troviamo Giovanni e Renata Strada, insieme, marito e moglie, formano il gruppo Stradada. Al cappello in cartolina sono sovrapposte alcune fotografie in primo piano di Beuys, la composizione tende a formare un’immagine di una croce, la struttura pone un equilibrio evidente, gli occhi dell’osservatore convergono naturalmente verso il centro dove incontriamo, con espressione sorpresa, Beuys. “Chi li ha Visti?” scritta sotto l’immagine, rimarca la spesso offuscata e sbiadita idea che avvolge artisti non facilmente classificabili.
Questi artisti descritti, come la maggior parte di coloro, che sono presenti in questa mostra,  potrebbero rientrare in una tipologia del riempimento, inteso come spazio specifico entro cui formalizzare il pensiero, com’è nel caso dell’utilizzo del cappello come spazio per l’azione artistica. L’artista qui, vi si proietta. Purtuttavia ce ne sono stati alcuni che hanno ribaltato tale modalità di lavoro, optando per una tipologia del prelievo. Questi artisti prendono il cappello e lo portano dentro, in uno spazio altrove. È il caso ad esempio di Linda Paoli, che il cappello lo materializza, trasportandolo, con la mano, nei pressi dei luoghi più consoni a quella creatività antropologica di Beuys: Terra, Aria, Acqua. A seguire c’è Antonio Sassu, che risponde con un’azione pratica a un’artista delle azioni com’era Beuys, con le sue “Living Sculpture”. Si pianta, letteralmente nel terreno, la testa è scomparsa sotto, il corpo è verticale con i piedi all’insù, da cui spunta una pianta. Come un’idea che può, solo nascere da un corpo ben radicato sulla terra.

Proprio a tal proposito, della terra, e di Joseph Beuys, potrei, provando a rimestare quei graffi lasciati dagli artisti, contribuire anche io al riempire il cappello:

Piccolo Resoconto su un pensiero di terra
Semplicemente terra.
Non v’è immagine, nel senso comune, che assicura, letteralmente che mette a riparo, il nostro pensare, più d’ogni altra cosa, a una posizione stabile, salda, sicura.
Certo se per terra intendiamo ciò, di contraltare un pensiero di acqua scivolerebbe slegato in superficie, ondeggiando liquidamente da un estremo all’altro.  Un pensiero d’acqua è dato dalla successione di visioni. Esse s’accavallano repentine senza che mai di una,  sia possibile fissare un ricordo. Ogni tentativo di mantenersi stabile è vanificato dalle correnti esterne che l’influenzano e lo soggiogano. Un pensiero di terra, invece, pesa se stesso grazie ad una gravità che lo rafferma. A differenza di un pensiero d’acqua che solo vede, scorrendo, un pensiero di terra guarda, è in guardia alla posizione su cui si mantiene e nella terra si rassicura affinché il pensiero abbia piedi per slanciarsi.

Heimat è, dunque, quel nostro orizzonte che ci assicura a noi stessi. La sua luce ha la stessa consistenza della nostra prima luce mai ancora vista.




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